La strada per la pace resta in salita. E (per adesso) passa dalle armi

Inevitabile oggi fornire missili a Kiev. Ma l'unica via percorribile è un compromesso che apra al dialogo e possa portare a un accordo giusto

La strada per la pace resta in salita. E (per adesso) passa dalle armi

Giusto inviare i Patriot americani a Kiev per difendere le città ucraine dall'offensiva missilistica russa che punta sull'arma del gelo e del buio per piegare la popolazione. Però non possiamo continuare a fornire armi sempre più sofisticate e micidiali come se non ci fosse un domani. Il presidente americano Joe Biden, nel faccia a faccia con Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca ha parlato anche di «pace giusta». Ovvero ha cercato di capire su quali reali obiettivi il presidente ucraino sarebbe disposto a negoziare per una via d'uscita che non sia solo affidata alle armi. La strada è tutta in salita e non si vede uno spiraglio di luce in fondo al tunnel. Sia Putin che Zelensky sembrano ancora intenzionati a scannare i loro eserciti e popoli. La finestra dell'inverno, anziché aprire ad una trattativa per arrivare ad un cessate il fuoco, è l'occasione per tirare il fiato sul campo e riorganizzare le forze in vista di una nuova fase di guerra ancora più drammatica e sanguinosa, che coinciderà con il primo anno di invasione.

«Per noi la strategia è continuare ad attaccare, perché non possiamo permetterci di congelare il fronte allentando la pressione» ha spiegato ieri l'ex consigliere ucraino per la sicurezza nazionale Oleksandr Danylyuk, ancora coinvolto nella pianificazione militare. Non ha tutti i torti, ma questo significa, come sottolinea che «abbiamo raggiunto il limite di quello che possiamo fare con le armi fornite degli americani. Per il prossimo stadio servono armi a lungo raggio». A Washington non è solo l'ora dei Patriot, che in ogni caso comportano tempi lunghi, almeno tre mesi di addestramento e un costo di due milioni di dollari a missile. Zelensky ha reiterato la richiesta di ottenere i missili Atacms a guida satellitare con un raggio di 300 chilometri, che il Pentagono aveva sempre rifiutato per timore che il conflitto si espandesse pesantemente sul territorio della Federazione russa.

Gli ucraini puntano a sfondare il fronte a Melitopol, cittadina occupata all'inizio, che non ama i russi, dove sono attive cellule in stile Gladio di partigiani ucraini. L'obiettivo è spezzare in due le linee del nemico separando la zona Sud dal fronte dell'Est.

I russi si stanno preparando, nonostante le difficoltà della mobilitazione parziale di 300mila riservisti ammesse dallo stesso zar Putin, a lanciare l'offensiva nel Donbass per conquistare tutta la contesa regione orientale. A Bakhmut, snodo cruciale, non ce la fanno nonostante mesi di attacchi. Putin ha pure ammesso che le truppe e gli equipaggiamenti non sono all'altezza. L'invasione dell'Ucraina ha dimostrato che l'esercito di Mosca non è la Nato dell'Est, ma un gigante con i piedi d'argilla.

Le ennesime minacce sul pronto utilizzo dei missili nucleari e l'annuncio dell'insediamento di una base navale a Mariupol, la Stalingrado ucraina, certo non aiutano a trovare un punto d'incontro per «una pace giusta».

Però non dobbiamo arrenderci a una guerra senza fine, come ha fatto capire il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, parlando agli ambasciatori italiani riuniti a Roma. Pier Francesco Zazo, giunto da Kiev, ha ammesso che «i segnali per la possibile fine del conflitto non sono positivi. Molto dipenderà dall'evolversi delle operazioni militari, ma non è da escludersi qualche effetto dell'azione diplomatica». Maurizio Massari, rappresentante all'Onu, fa notare che sulle sanzioni a Mosca «i Paesi che le applicano sono una minoranza, una quarantina rispetto ai 190 dell'Occidente allargato».

L'ambasciatore in

Russia, Giorgio Starace, spera nel «dialogo, difficile, con Mosca, ribadendo con fermezza le nostre posizioni», consapevoli che «possiamo e dobbiamo giocare a tutto campo per contribuire alla fine delle ostilità in Ucraina».

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