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Suicidio assistito, primo caso Mario: "Ora libero di volare"

L'uomo ringrazia l'associazione Luca Coscioni che ha raccolto e pagato 5mila euro per il farmaco letale

Suicidio assistito, primo caso Mario: "Ora libero di volare"

Chissà perché l'Associazione Coscioni, nei lunghi e tormentati giorni che hanno preceduto l'atto estremo del suicidio assistito, lo ha continuato a chiamare «Mario». Mentre lui un vero nome ce l'aveva: Federico. Primo paziente italiano a chiudere la vita con un gesto della mano, come si fa quando con la chiave si serra una porta sapendo che non la si riaprirà mai più. Federico Carboni, 44 anni, di Senigallia (Ancona), prima che un incidente trasformasse la sua esistenza in un tormento insopportabile, faceva il camionista.

Ieri Federico ci ha detto addio, con la dignità che lo ha sempre contraddistinto. Fino alla fine. Quando forse avrà sognato di partire per l'aldilà proprio a bordo del suo amato Tir. Chi invece ha fatto una pessima figura è stato lo Stato italiano, il cui «sistema sanitario» ha negato a Federico la strumentazione e il farmaco per mettere in pratica il suo ultimo, legittimo, desiderio: smettere di soffrire. A fornire a Federico tutto il necessario è stata invece l'Associazione Coscioni dopo una colletta che in poche ore ha raccolto i 5 mila euro per far fronte alle spese. «In assenza di una legge - ha spiegato l'Associazione - lo Stato italiano non si è fatto carico dei costi dell'assistenza al suicidio assistito e dell'erogazione del farmaco, nonostante la tecnica sia consentita dalla Corte costituzionale con la sentenza Cappato/Dj Fabo».

Federico avrebbe potuto urlare la sua rabbia, invece ha preferito distinguersi per lo stile delle sue parole: «Grazie a tutti per avere coperto i costi del mio aggeggio, che poi lascerò a disposizione dell'Associazione Luca Coscioni per chi ne avrà bisogno dopo di me. Continuate a sostenere questa lotta per essere liberi di scegliere». Non c'è che dire: il commiato di un grande uomo. Dinanzi al cui testamento morale si può solo tacere e riflettere: «Mi dispiace congedarmi dalla vita, sarei falso e bugiardo se dicessi il contrario perché la vita è fantastica e ne abbiamo una sola. Ma purtroppo è andata così. Ho fatto tutto il possibile per riuscire a vivere il meglio possibile e cercare di recuperare il massimo dalla mia disabilità, ma ormai sono allo stremo sia mentale sia fisico. Non ho un minimo di autonomia della vita quotidiana, sono in balìa degli eventi, dipendo dagli altri su tutto, sono come una barca alla deriva nell'oceano. Sono consapevole delle mie condizioni fisiche e delle prospettive future quindi sono totalmente sereno e tranquillo di quanto farò. Ora finalmente sono libero di volare dove voglio».

Tetraplegico da 11 anni in seguito a un incidente stradale, Carboni è stato a lungo al centro di un braccio di ferro tra l'associazione radicale che lo assisteva sul piano giuridico e mediatico nella sua campagna per «l'eutanasia legale» e le istituzioni sanitarie della Regione Marche che non avevano dato corso alla sua richiesta di ottenere il suicidio assistito. Una brutta contrapposizione soprattutto dopo i decisivi segnali di apertura costituzionale. Ma la burocrazia, si sa, è più forte di ogni cosa, compresa la pietà umana. A causare il decesso di Carboni, alle 11.05, è stata l'autosomministrazione di un farmaco letale sotto la supervisione di un anestesista e dirigente dell'Associazione: un professionista esperto, di 63 anni, «testimone» nel del «distacco dei supporti vitali» che nel 2006 portò alla morte Piergiorgio Welby, paziente-simbolo del rifiuto dell'accanimento terapeutico e strenuo attivista per il diritto all'eutanasia: un caso simile a quello di Federico Carboni, con la differenza che nel frattempo sono passati ben 16 anni, durante i quali molto è cambiato ma tanto resta ancora da fare.

La riprova viene proprio dall'intricato contenzioso tra il Comitato etico della Regione Marche e Federico Carboni: il Comitato, pur riconoscendo il diritto del paziente a ricorrere alla «morte assistita» così come sancita dal verdetto della Consulta, si è dovuto fermare dinanzi alla «mancanza di una legge che ne definisca principi e procedure»; con la

conseguenza di «impedire di praticare qualunque suicidio assistito con gli strumenti e il personale del Servizio sanitario». Tradotto: il gesto di Federico sarebbe ancora - in punto di diritto - tecnicamente «fuori legge».

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