Anche per Draghi è finito il tempo della diplomazia a tutti i costi. Una linea per certi versi imposta in questi ultimi giorni anche dalla particolare situazione in cui versa l'Italia, uno degli Stati europei che più dipendono dal gas russo. Il nostro fabbisogno energetico, infatti, è coperto per circa il 43% dal metano di Gazprom. Siamo, dunque, uno dei Paesi che più sentirà il riflesso delle sanzioni decise contro Mosca, certamente più di Francia o Spagna. Non è un caso, quindi, che sul tema Palazzo Chigi si sia mosso con molta prudenza, in particolare sul via libera all'esclusione della Russia dal sistema Swift (la piattaforma di messaggistica che mette in comunicazione banche e istituzioni finanziarie di tutto il mondo). Con il sistema bancario russo in isolamento, infatti, per l'Italia diventerà infatti impossibile pagare le forniture di gas alla Russia. Una prudenza che ci è valsa lo scetticismo di alcuni Paesi del Nord Europa, qualche articolo critico sulla stampa anglosassone e pure un passaggio polemico - ormai acqua passata - con il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj.
Il cambio di passo c'è stato sabato mattina, quando dopo un venerdì di ampie riflessioni sul tema delle sanzioni e di ripetuti confronti con i leader europei, l'Italia si è allineata sul fronte del rigore. L'interesse nazionale - fonte di legittima preoccupazione per Palazzo Chigi - ha infatti inevitabilmente dovuto cedere il passo alle ragioni della tenuta democratica dell'Occidente, messa evidentemente a rischio dall'invasione russa dell'Ucraina. E anche Draghi ha abbandonato la linea del confronto a tutti i costi. Lo ha messo nero su bianco ieri, durante le comunicazioni alle Camere. In particolare nei suoi quasi dieci minuti di replica al Senato, a braccio e con un piglio da politico navigato. In cui è stato duro, netto, in alcuni passaggi persino definitivo. La diplomazia «è fatta di dialogo» ma «anche di forza», dice il premier. Perché «per cercare la pace bisogna volerla» e «chi in questo momento ha più di 60 chilometri di carri armati alle porte di Kiev non vuole la pace».
Draghi, dunque, rivendica la scelta di opporsi a Mosca, di entrare in campo direttamente e fornire armi - prima volta nella storia dell'Europa - a uno Stato sotto attacco. «Ho sperato fino alla fine che si potesse evitare questa mostruosità, ma - spiega - non ci siamo riusciti perché era stato tutto premeditato da tanto tempo». Un affondo diretto a Vladimir Putin, accusato esplicitamente di aver macchinato per anni l'aggressione all'Ucraina. «Dalla guerra di Crimea a oggi - dice l'ex numero uno della Bce - le riserve della Banca centrale russa sono state aumentate sei volte, alcune sono state lasciate in deposito presso altre Banche centrali in giro per il mondo, altre presso banche normali. Non c'è quasi più nulla, è stato portato via tutto. E queste cose non si fanno in giorno, ma in mesi, mesi e mesi». Insomma, secondo Draghi non c'è «alcun dubbio» che in Putin «ci fosse molta premeditazione e preparazione». In un modus operandi che il premier italiano paragona senza troppi giri alla Germania di Adolf Hitler del 1938. «L'aggressione della Russia verso un Paese vicino ci riporta indietro di oltre 80 anni, all'annessione dell'Austria, all'occupazione della Cecoslovacchia e all'invasione della Polonia», si legge nel testo diffuso da Palazzo Chigi prima dell'intervento dell'ex Bce in Senato. Che poi nello speech Draghi si fermi a «80 anni» e ometta il resto conta il giusto.
Ecco perché, dunque, il premier italiano non nasconde di nutrire più di un dubbio sulla possibilità - almeno ad oggi - di aprire un dialogo tra Mosca e Kiev. «Ho l'impressione - spiega senza giri di parole - che questo non sia il momento.
Ogni volta, infatti, le dichiarazioni del presidente Macron sono smentite dalle dichiarazioni di fonte russa». Certo, «verrà il momento» e «per questo occorre tenere sempre l'attenzione vigile», bisogna «afferrare quel momento quando si presenta». Ma «ho l'impressione che ora non ci sia».
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