La svolta sulla recessione. E la Volkswagen minaccia chiusure

La crisi economica alle radici del clamoroso voto Intanto la casa di Wolfsburg pensa a tagli pesanti

La svolta sulla recessione. E la Volkswagen minaccia chiusure
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Fatto di nuovo a pezzi dalle urne, il Cancelliere tedesco Olaf Scholz ha accusato Afd di danneggiare il Paese e di indebolire l'economia. In realtà, il successore di Angela Merkel farebbe meglio a puntare l'indice contro se stesso. Se per certi versi possono essere il frutto di una deriva xenofoba, i risultati in Turingia e Sassonia, con lo spostamento del voto popolare ancor più a destra rispetto alle elezioni nazionali, sono soprattutto il risultato del pessimo stato di salute economico della Germania provocato anche dalle scelte pro-cicliche della coalizione semaforo che hanno finito per deteriorare il ciclo congiunturale e stringere cittadini e imprese in una morsa d'incertezza e di sfiducia.

Eppure Berlino continua a ignorare lo stillicidio di indicatori negativi, tutti accomunati dall'odore acre della crisi. L'ultimo è arrivato ieri dal settore manifatturiero, che da fiore all'occhiello del modello tedesco si è ormai trasformato in una piaga aperta. Mentre con l'obiettivo di contenere i costi Volkswagen si prepara a rompere un tabù dal 1988 considerando probabile la chiusura di stabilimenti anche tedeschi per tagliare i costi, gli appena 42,4 punti dell'indice Pmi di agosto segnano una crisi profonda che sconfina nella recessione da cui sarà difficile uscire. Al contrario, grazie a un'arrampicata che dura da tre mesi, l'Italia è ormai a un soffio dall'acciuffare quota 50, lo spartiacque tra contrazione e espansione del settore.

Se è vero che la Germania ha pagato più di tutti lo choc energetico, gli elevati livelli d'inflazione, le strette monetarie decise dalla Bce e la debolezza della domanda mondiale che ha impattato sulle sue capacità di export, è altrettanto vero che non ha fatto nulla per contrastare i venti contrari. Anzi, ha deliberatamente mantenuto dritta la barra su due principi cardine dell'impalcatura fiscale: freno al debito (Schuldenbremse), con un deficit che non deve eccedere lo 0,3% del Pil; e pareggio di bilancio (Schwarz Null). In una coalizione di governo eterogenea in cui almeno i Verdi avrebbero dovuto controbilanciare le spinte ordo-liberiste, il ministro delle Finanze Christian Lindner ha imposto decisioni improntate all'austerity e altre ne vorrebbe imporre (riduzione della spesa sociale, abolizione del ministero della Cooperazione allo sviluppo) dopo aver provato, con un magheggio contabile bocciato dalla Corte Costituzionale di Karlsruhe, a distrarre i 60 miliardi di euro che erano stati accantonati per far fronte al lockdown.

Berlino ha un rapporto debito-Pil di poco superiore al 60%, può contare su emissioni del Tesoro con rendimenti reali negativi, ma pur essendo finita in recessione già nel '23 (-0,3% il Pil) continua a perseguire una politica a senso unico attenta solo all'equilibrio di bilancio e in cui gli investimenti pubblici hanno un ruolo marginale. E questo andazzo dura almeno da una quindicina d'anni, da quando cioè le risorse per sostenere il Paese sono state tagliate al 2% del Pil (nel 1970 erano pari al 5%), una percentuale inferiore al 3,2% dell'Italia. Anche se l'esecutivo ha promesso di voler inserire nel bilancio 2025 alcune misure di sostegno, l'effetto di stimolo alla crescita non dovrebbe essere superiore allo 0,5%. La Germania avrebbe invece bisogno di ben altro. Il Deutsches Institut für Urbanistik ha stimato che per ammodernare le strade e mettere in sicurezza i ponti occorrerebbero 372 miliardi, ai quali aggiungere i 40 miliardi per risistemare la rete ferroviaria.

Insomma, un Paese che cade in pezzi,

nell'indifferenza di chi lo governa, ha davanti a sé un futuro pieno di buche. Come quelle che, come tanti crateri insidiosi, fioriscono sulle Autobahnen. Poi non meravigliamoci se i tedeschi mettono la freccia a destra.

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