![Tensioni che resistono dopo ottant'anni. Ecco chi le alimenta](https://img.ilgcdn.com/sites/default/files/styles/xl/public/foto/2023/06/05/1685942456-ilgiornale2-2023060507201565.jpg?_=1685942456)
«T rst je na», Trieste è nostra e «Smrt Fasizmu Svoboda Norodom», morte al fascismo, libertà ai popoli, sono le scritte in vernice rossa, che hanno imbrattato la foiba di Basovizza, unico monumento nazionale, del genere, sul Carso triestino. Gli slogan delle truppe partigiane di Tito, che hanno terrorizzato gli italiani, a guerra finita, costringendo almeno 250mila istriani, fiumani e dalmati all'esodo. E occupato per 40 giorni il capoluogo giuliano, fra il maggio e giugno 1945, deportando tanti italiani spariti per sempre. E non manca la firma: «161», simbolo degli antifa che fanno parte del mondo antagonista.
L'oltraggio non riguarda solo il luogo dove furono infoibati gli italiani, ma la tempistica, 48 ore prima del giorno del Ricordo, che da 20 anni celebra questa tragedia e il dramma dell'esodo davanti alle violenze di Tito. Un tabù di Stato, per almeno mezzo secolo, in nome della realpolitik e del ruolo della Jugoslavia nella guerra fredda, stato cuscinetto e segreto alleato degli Usa, nello scontro fra Est e Ovest.
Una terza scritta non in sloveno, ma in lingua italiana, «È un pozzo!», sposa la tesi degli ultimi Mohicani, orfani del muro di Berlino, che negano i massacri delle foibe o li riducano a poche centinaia di fascisti gettati per vendetta nelle voragini carsiche. Ad 80 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale «la madre dei cretini è sempre incinta. Sono una minoranza di stupidi» si sfoga con il Giornale, il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza, che ieri è andato sul posto a cancellare le scritte. Alcuni indizi circoscrivono la cerchia dei sospetti della provocazione. Lo sloveno è corretto, anche troppo, ma uno degli slogan non è corretto. I partigiani titini non usavano il termine «norodom», popoli, ma quello singolare «narodu» un solo popolo. Se fossero vecchie cariatidi che magari da giovanissimi hanno vissuto gli anni della guerra non avrebbero sbagliato il grido di battaglia. Sul Carso si concentra la minoranza slovena di Trieste, ma qualche cattivo maestro avrebbe potuto mandare avanti uno o più giovani, anche italiani, con un foglietto e le parole tradotte da ricopiare con la vernice rossa indelebile.
La firma «161» ha un significato preciso, che porta al mondo antifa. Il numero è un codice per l' «azione antifascista» (A=1, F=6, secondo l'ordine alfabetico). A volte viene scritto così: 161>88 (88 è il codice per Heil Hitler delle frange neonaziste, tenendo conto che H=8).
La Digos sta indagando e controllando tutte le telecamere su un perimetro più ampio. Nell'area della foiba c'è solo una con una visuale limitata. Il 161 è il numero adottato dall'Azione antifascista di Verona. Sulla loro pagina Facebook si definiscono «INFO-SPAZIO161 suburban». Lo scorso 14 aprile avevano ospitato , Eric Gobetti, l'autore del libro «E allora le foibe?», punta di lancia dei negazionisti. Gli antifa veronesi hanno organizzato l'incontro «contro le censure e le minacce fasciste» in vista del 25 aprile. Gli antagonisti veronesi potrebbero non avere a che fare con la foiba imbrattata e oltraggiata, ma da questi ambienti e altri gruppi del genere nel Nord Est sono arrivati ripetutamente a Trieste attivisti in sostegno alle Ong locali ed ai migranti che entrano illegalmente in Italia percorrendo la rotta balcanica. Tempo fa era comparsa una scritta emblematica, sempre in rosso, su una pietra del Carso non distante da Basovizza. «Fascists go home (or in foiba) Refugees welcome!», fascisti a casa o in foiba, rifugiati benvenuti. Trieste, che porta le cicatrici indelebili dei sanguinosi totalitarismi del secolo breve, la foiba di Basovizza e la Risiera di San Sabba, non è ancora riuscita a superare del tutto astio e divisione ideologica.
A pochi chilometri, Gorizia e Nova Gorica, divisa dalla seconda guerra mondiale e da una brutale occupazione titina, si uniscono nel nome della capitale europea della Cultura. Anche l'obiettivo finale del giorno del Ricordo, nato per non dimenticare uno degli orrori del 900, deve essere quello di unire e non dividere, ma la strada è ancora lunga.
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