«Adesso bisogna riaprire l'inchiesta Aemilia sulle connessioni fra la 'ndrangheta e la sinistra in Emilia. Ci sono fiumi di intercettazioni sul rapporto opaco fra le famiglie della criminalità e il Pd. Una valanga di carte rimasta in un cassetto». La denuncia al Giornale dell'azzurro Giovanni Paolo Bernini, vittima di un abbaglio giudiziario, non può restare lettera morta. Soprattutto adesso che il Csm ha chiesto che il procuratore di Reggio Emilia Marco Mescolini venga cacciato perché avrebbe rallentato delle indagini per non mettere in imbarazzo il Pd.
Ma che c'entra il Pd con Aemilia, la maxi inchiesta sulle infilatrazioni della malavita calabrese in Emilia-Romagna? Bisogna fare un po' d'ordine e leggere le carte della monumentale immagine che si è spezzata in tre filoni processuali (Aemilia ordinario, Aemilia abbreviato e Aemilia/2). Nella sentenza di condanna del processo in abbreviato la Corte tira le orecchie al Pd e a quei «candidati sindaco di Reggio Emilia» che andarono «a fare campagna elettorale a Cutro, in provincia di Crotone, feudo della cosca Grande Aracri, perché «si resero protagonisti di comportamenti che hanno rafforzato l'associazione». Secondo un pentito la città era è «il bancomat delle ndrine crotonesi». Siamo nel 2009, e tra quei politici c'era anche l'allora sindaco Pd poi rieletto Graziano Delrio. Si vociferò di sue foto con i boss, ma erano chiacchiere de relato. Nelle 5mila pagine di sentenza la 'ndrangheta calabrese viene considerata «egemone sul piano criminale fino al punto da diventare rilevante se non dominante in numerosi segmenti dell'economia». C'erano politici eletti coi voti del boss? Sì, le ndrine contavano su «consiglieri comunali eletti col voto della comunità calabrese sia nella maggioranza sia all'opposizione che volevano indebolire e isolare il prefetto dell'epoca», impegnato a stanare le imprese della zona in mano alla mafia calabrese. Reggio Emilia come Reggio Calabria, insomma. Tanto che persino la rossa Brescello, la terra di Don Camillo e Peppone, venne sciolta per infiltrazioni mafiose. In tutto questo tempo il Pd, che in teoria nella regione rossa per eccellenza controlla anche i sassi cosa faceva? Guardava e non capiva? Già. Basterebbe pensare a cosa disse lo stesso Delrio quando l'allora procuratore capo di Bologna Roberto Alfonso ammise che Delrio era stato sentito come «persona informata sui fatti» nel corso dell'inchiesta AEmilia. I grillini chiesero che l'esponente dem riferisse alla commissione Antimafia, lui glissò ritenendo la richiesta «bizzarra». Già. Si infuriò persino l'allora procuratore nazionale antimafia Franco Roberti: «Se vai a fare campagna elettorale in Calabria, vuol dire che sai che l'elezione non dipende dall'Emilia». Al posto di Delrio venne eletto Luca Vecchi, suo braccio destro.
La moglie Maria Sergio («È nata a Cutro? Non lo sapevo», dira Delrio agli inquirenti), funzionaria dell'ufficio Edilizia con qualche pratica chiacchierata, commise la leggerezza di acquistare nel 2012 la casa da un personaggio poi arrestato nella maxinchiesta Aemilia sulla ndrangheta, Francesco Macrì, accusato di essere un prestanome del capoclan Nicolino Grande Aracri. Chissà che cosa ne pensa oggi Roberti, europarlamentare Pd.
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