Sentire pronunciare la parola ergastolo sembra non averlo turbato più di tanto. «Lo sapevo, ero preparato, sono rimasto impietrito, ma sono sereno, non mi aspettavo nulla di diverso», sono le prime parole pronunciate in carcere da Filippo Turetta dopo la condanna inflitta dalla corte d'Assise di Venezia per l'omicidio dell'ex fidanzata Giulia Cecchettin.
Martedì il 22enne ha aspettato sei ore che i giudici uscissero dalla camera di consiglio, con gli agenti della penitenziaria che non lo hanno lasciato solo un attimo. «Un'attesa angosciante», dice. Poi è entrato in aula per ascoltare la lettura del dispositivo a testa bassa, senza apparentemente tradire emozioni. Un veloce scambio con il suo legale, poi il ritorno in cella nel carcere veronese di Montorio, nella sezione separata che accoglie i detenuti accusati di particolari violenze di genere, dove ha ripreso la sua routine nell'indifferenza generale degli altri detenuti, ai quali è apparso stranamente loquace, come se si sentisse sollevato dalla fine del processo. Chi ha a che fare con lui ha cercato di rassicurarlo, di abbassare la tensione, di spiegargli che l'attenzione della stampa presto diminuirà e che adesso deve concentrarsi sul suo percorso di recupero.
Fuori dal carcere la decisione dei giudici continua a far discutere per il fatto che non è stata riconosciuta l'aggravante della crudeltà, né lo stalking. Una mancanza di rispetto nei confronti della famiglia della vittima, secondo Elena Cecchettin, sorella di Giulia, che affida ad Instagram uno sfogo durissimo. «Una sentenza giudiziaria non corrisponde sempre alla realtà dei fatti. Si chiama verità giudiziaria ed è quello che viene riportato dal verdetto. E basta. Non toglie il dolore, la violenza fisica e psicologica che la vittima ha subìto. Ciò che è successo non sparisce solo perché un'aggravante non viene contestata, o più di una. È giusto ricordare che il non riconoscimento dello stalking (non parlo nemmeno dell'altra aggravante, la crudeltà, perché si commenta da sola la situazione) è un'ennesima conferma che alle istituzioni non importa nulla delle donne. Sei vittima solo se sei morta». «Sapete cosa ha ucciso mia sorella?», chiede Elena. «Non solo una mano violenta, ma la giustificazione e menefreghismo per gli stadi di violenza che anticipano il femminicidio».
Ieri è stato anche il giorno dell'incontro al ministero dell'Istruzione tra Gino Cecchettin, che presiede la Fondazione intitolata alla figlia, e il ministro Giuseppe Valditara.
Il faccia a faccia è servito per sancire la collaborazione nella battaglia contro la violenza sulle donne con la firma di un Protocollo che preveda azioni comuni. «Abbiamo un obiettivo comune che è quello di combattere la violenza contro le donne. Il tema è troppo importante perché possa essere oggetto di strumentalizzazione di qualsiasi genere», ha detto Valditara.
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