Declassificato. Cesare Battisti non è più un'ombra rossa, ma solo un detenuto comune. Da qualche giorno è fuori dal circuito dell'alta sicurezza in cui era rimasto dal suo rocambolesco arresto e dall'arrivo in Italia tre anni fa.
Il passato svanisce con le sue sofferenze inaudite, le polemiche restano, anzi si alzano altissime.
«È l'ultimo soccorso al terrorismo rosso, un'aberrazione, una vergogna», si indigna Andrea Delmastro Delle Vedove, responsabile giustizia di Fratelli d'Italia. «Queste discussioni mi lasciano allibito», replica l'avvocato Davide Steccanella, difensore dell' ex terrorista.
In effetti sono passati più di quarant'anni dai delitti di Battisti e dei Pac, i Proletari armati per il comunismo, autori di quattro omicidi efferati nel Nord del Paese. Ora le vittime e i loro parenti protestano. «È una vergogna - afferma Adriano Sabbadin, figlio di Lino, il macellaio ammazzato nel 1979 vicino Venezia - il prossimo passo sarà la scarcerazione». «Non sono d'accordo per nulla», insiste Alberto Torregiani, che vide morire il padre Pierluigi in un agguato in cui anche lui rimase gravemente ferito. «Farò in modo che la richiesta venga bloccata perché la violazione del rispetto delle vittime deve finire una volta per tutte».
In realtà non si tratta di una richiesta, ma di una decisione di natura amministrativa del Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, che appunto ha declassificato il regime carcerario e in qualche modo chiude un'epoca. Naturalmente, Battisti resta in cella e al massimo si sposterà dal carcere di Ferrara, dove è attualmente, a quello di Parma. Ordinaria amministrazione, ma sempre con la massima attenzione per una persona condannata al carcere a vita. Il fatto è che l'uomo è in qualche modo un simbolo degli Anni di Piombo e ogni decisione che lo riguarda viene naturalmente amplificata.
Battisti era il leader dei Proletari armati per il comunismo, uno dei tanti gruppuscoli eversivi nati alla fine degli anni Settanta, nella stagione più feroce e insensata del terrorismo. Fra il '78 e il '79 i Pac uccidono quattro volte con motivazioni farneticanti: l'orefice Torregiani viene giustiziato perché mesi prima, nel corso di una rapina in un ristorante, aveva estratto la pistola e colpito a morte un bandito.
Quella dei Pac è una storia sanguinosa ed effimera, interminabile è invece la fuga di Battisti che dura una vita: lo ammanettano, poi sparisce dalla circolazione e ricompare a Parigi. Gode di altissime protezioni fra la Francia e l'America Latina, dove pure troverà rifugio. In pratica diventa un'icona di certa sinistra, viene dipinto come una vittima, proprio lui, di fantomatici processi politici e viene acclamato come uno scrittore, coccolato da fior di intellettuali, in particolare nella capitale francese.
La realtà è molto più modesta e tragica: il passato che Battisti cerca di riaccreditare gronda sangue. Ma per arrivare alla resa dei conti ci vogliono anni e anni: lo catturano solo nel 2019 in Bolivia e finalmente lo estradano in Italia dove ammette i suoi crimini.
Il Paese può voltare pagina, ma tre anni sono pochi per metabolizzare ferite che in certe famiglie non si rimargineranno mai più.
Ecco quindi la rabbia di Sabbadin e di Torregiani che parla dalla sedia a rotelle su cui è inchiodato da quarantatré anni. Per il garante dei detenuti dell'Emilia Romagna Roberto Cavalieri invece è tutto normale: «Questa persona ha seguito l'iter normativo in modo corretto, l'amministrazione penitenziaria ha riconosciuto quello che non poteva non riconoscergli».
Ciascuno ha la sua posizione che va rispettata.
Per Maurizio Campagna, fratello di Andrea, l'agente della Digos ucciso a Milano nell'aprile 1979, «l'importante è che sconti l'ergastolo, la pena che gli è stata inflitta per i reati che ha commesso». Ogni altro discorso sarebbe, almeno oggi, un'offesa alla memoria di chi non c'è più.
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