Unipersonali e infelici

Unipersonali e infelici

I single nelle grandi città (a cominciare da Milano), sono ormai le famiglie più diffuse. «Famiglie unipersonali», le chiama l'Istat. Che famiglie poi non sono, ma fa lo stesso. Con un aumento del 46% in 10 anni da qualche parte nelle statistiche bisognava pur metterli. E poi famiglia ha già un suo prestigio, a condizione naturalmente che non sia quella «tradizionale», che fa troppo retrò e non è affatto smart.

Il loro numero aumenta ogni anno, assieme alla diminuzione dei matrimoni, e della nascite. Si capisce quindi che siano oggi il gruppo sociale più osservato dai sondaggisti e corteggiato da tutti: i politici in cerca di voti, i produttori di consumatori, le banche di qualcuno che depositi i soldi, o li prenda in prestito. Naturalmente anche le organizzazioni di incontri, di eventi. Insomma tutti. Anche senza darsi particolare da fare, sono dunque autorevolissimi. Giustamente: il loro numero è l'unico dato in crescita (assieme a quello delle demenze senili e dei tumori) di un panorama per il resto caratterizzato da curve inesorabilmente calanti. Tutti, quindi, si chiedono come mai siano sempre di più le persone che stanno da sole. La risposta più frequente è quella economica: perché c'è la crisi, e stare insieme costa di più. È improbabile che sia così. Intanto perché la marcia dei single è cominciata ben prima del 2008, inizio della crisi. Ma soprattutto perché in tempi che visti da oggi erano di miseria non ci si pensava due volte a mettersi insieme e a darsi da fare per sbarcare il lunario. Espressione del resto che oggi, in tempi di assegni di cittadinanza, appare arcaica e priva di senso: nessuno usa più questi termini avventurosi, marinareschi o astronomici. Anche i single, infatti, contano sul fatto che qualcuno pensi a loro: la mamma, che da qualche parte c'è sempre, lo Stato, visto che anche loro sono famiglia, le Chiese, che trovino loro dei compagni/e di vita, i media, che ascoltino i loro problemi, e tutte le altre istituzioni, ognuna per la sua parte. È giusto così, visto la dimensione del loro gruppo sociale, che si avvia a 9 milioni di italiani.

La loro umanissima disponibilità all'aiuto racconta però molto di loro, e delle ragioni della loro diffusione. Il single è qualcuno che non vive in coppia, e spesso non lo fa perché non sa neppure come si faccia. Perché a stare in coppia si impara da piccoli, vivendo in quella formata dai genitori. Che però, appunto, spesso non c'è più, o c'è sempre meno, e quando c'è è spesso «scoppiata», e sono sempre meno gli ex bambini a cui viene in mente di ripetere il modello a cui hanno assistito da piccoli, con in più (raccontano le ricerche internazionali) la frustrazione di non poter fare nulla per interromperlo. La famiglia, diceva Joseph Ratzinger, è dove gli esseri umani imparano a stare assieme, e si formano i legami. È così; ma se non c'è più non si formano per niente.

In questo modo nascono le «famiglie unipersonali», molto vezzeggiate da papà e mamme adottive: sindaci progressisti, società di assicurazioni, organizzazioni confessionali, catene di supermercati, organizzazioni di aiuto psicologico etc. Corteggiati, eppure, spesso, tremendamente infelici. Anche a madri e padri tradizionali, naturalmente, la felicità non era garantita. C'era però un altro/a accanto, più o meno sinceramente amato, ma profondamente conosciuto. C'era una vita condivisa, a lungo, a volte per sempre. Uno che ti attende e l'altro che ti cerca.

L'eterna coppia Ulisse-Penelope, che magari si perde, ma poi da qualche parte si ritrova, e intanto si vive, e i figli crescono. Questo nella «famiglia unipersonale» non c'è più. E prendere il largo, navigare nella vita, diventa più difficile. E molto meno emozionante.

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