Ha appena fatto ritorno in Australia, dopo due conferenze tra il Canada e gli Stati Uniti dove ha presentato alcuni progetti. «Sono tornata a casa», ci dice ieri su Skype quando la sentiamo. Lì sono le nove di sera, in Italia sono le 13. Per Martina Barzan, 31 anni, classe 1988, di Moniego di Noale, un paesino in provincia di Venezia, la sconfinata Australia è diventata la sua casa. Lei appartiene a quella categoria di talenti che l'Italia non vuole.
Laureata in Ingegneria Biomedica all'Università degli Studi di Padova, con Magistrale in Bioingegneria, l'Australia, quattro anni fa, l'ha presa con sé e non l'ha lasciata scappare. Dopo il dottorato in Biomeccanica, finito a marzo scorso e proclamato un mese fa, Martina lavora alla Griffith University a Gold Coast, una regione metropolitana a sud di Brisbane e qui restituisce il movimento ai bambini. Il prossimo 2 settembre l'equipe del progetto a cui sta lavorando opererà il primo caso. Un'adolescente con una malformazione alla gamba che in seguito a una frattura deve essere operata. Perché Martina lavora con i bambini che hanno malformazioni al femore e all'anca. Raccoglie i dati, fa le risonanze magnetiche, fa l'analisi del cammino, studia, costruisce un modello con le ossa e i muscoli del paziente, fa un piano per l'intervento e ricostruisce il femore e il bacino in 3D. Poi discute col chirurgo, il medico le dice quale tecnica vuole usare, e poi disegna una linea guida che il chirurgo andrà a posizionare durante l'operazione.
«Io replico a computer quello che il chirurgo ha in mente - spiega Martina al Giornale e cerco di ottimizzare la correzione. La linea guida aiuta a traslare il piano virtuale al paziente vero. Il chirurgo poi, posizionandola sul femore, sa esattamente dove tagliare e dove fissare l'impianto». La linea guida, che viene stampata in 3D e sterilizzata, serve proprio al chirurgo per essere preciso al massimo, per non commettere errori. «Tutti i passaggi racconta ancora la ragazza vengono fatti all'Università con tutte le stampanti in 3D e sempre in collaborazione con l'ospedale».
Già perché qui, in Australia è tutta un'altra storia. Qui l'Australia le ha pagato le tasse, le ha pagato il visto, le ha dato uno stipendio. E dire che Martina aveva provato a lavorare all'Università di Padova. Ma alla Griffith University, ci racconta, «mi hanno dato due borse di studio, la prima copriva le tasse, la seconda era lo stipendio per vivere. Mi hanno pagato l'assicurazione sanitaria e anche il visto. Mi sono resa conto ora quanto gli sono costata». Già. Ma quanto costa la vita lì? Costa gli affetti. Costa la distanza. Costa la sofferenza del distacco. Costano i compleanni persi. I matrimoni degli amici. Le feste. Le lauree. Magari anche le prime nascite. Costa provare a mettere radici altrove quando sai che la radice sta in Italia.
In quel paesino sperduto di Noale, Martina, che è la più piccola di tre fratelli, ha la madre, il padre, il fratello Andrea e la sorella Michela, e li vede solo una volta l'anno. «Il progetto qui mi piace molto racconta - e sto imparando davvero tante cose.
Ma dopo un po' di anni la distanza pesa, ti perdi i matrimoni degli amici, le lauree, i semplici compleanni, dici sempre che tanto ci sarai la prossima volta e invece ti rendi conto che queste cose non tornano indietro e inizi a rivalutare tutto. A Padova sarebbe stato un sogno poter restare, ma non avrei avuto contatti col mondo internazionale».
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