Giovedì sera, stazione centrale di Milano. I viaggiatori, in attesa del treno, si guardano attorno, annoiati. Tu passi, cercando di mantenere un metro di distanza, ma sfori di qualche centrimetro e vieni fulminato con uno sguardo. Hai osato, anche se inconsapevolmente, oltrepassare il sacro confine eretto contro il virus. Ti sei avvicinato troppo. E se fossi un untore? E poi perché continui a respirare in modo così affannato? Sarai forse malato? Queste erano le domande che era possibile intuire dietro le mascherine di coloro che mi ero trovato accanto. E poco importa che le difficoltà respiratorie fossero dovute a una corsa fatta con indosso la mascherina, anche quando era possibile toglierla, proprio per tutelare l'altrui salute. Il seme del dubbio era stato piantato. Ero diventato il potenziale untore.
Il breve apologo per spiegare ciò che sta accadendo attorno a noi. A partire dalla fine di febbraio, ovvero da quando abbiamo preso consapevolezza che il Covid-19 era arrivato in Italia, ci sono stati oltre 250mila contagi che hanno provocato circa 35mila morti. Sono questi i numeri dell'epidemia in Italia. Numeri che non bastano, ovviamente, a raccontare i drammi e i lutti di chi si è visto strappare i parenti, magari senza nemmeno avere la possibilità di salutarli, dal Covid-19. Potremmo parlare degli effetti nefasti che questo virus ha avuto sulla vita delle persone, delle paure che ha generato o sui danni che ha provocato all'economia. Ma in questo articolo vogliamo parlare di un altro effetto del virus: la paura nei confronti del prossimo. Basta passeggiare in centro a Milano o in spiaggia per rendersene conto. Spesso chi incrociamo crede di trovarsi davanti a possibili infetti. La mano? Non si stringe più. Gli abbracci? Meglio evitare. Figuriamoci i baci per salutarci. E se per sbaglio ti scappa uno starnuto (che finisce rigorosamente nell'incavo del braccio, come abbiamo imparato a fare), ecco che molti iniziano a fare gli scongiuri.
"Nel mondo di Hobbes, nel mondo dei lupi, l’uomo si unisce agli altri per reciproco timore", mi disse l'ex ministro Giulio Tremonti in un' intervista per ilGiornale.it. "Oggi, sempre per paura, è l'opposto: non ci si unisce, ma ci si aliena dagli altri e da se stessi. E tutto questo, finché dura, indica più di ogni altro indicatore statistico ed economico la rottura che si è creata nel meccano, prima automatico e positivo, della globalizzazione". Tremonti ha ragione: oggi il prossimo ci è sempre meno prossimo ed è sempre più distante.
Ma non è sempre stato così, come ci insegnano numerosi esempi della storia. Uno dei momenti più importanti dell'umanità è rappresentato dalla guerra tra Roma e Cartagine. Cento anni di conflitti e tensioni, che hanno cambiato il corso della storia per tre motivi. Il primo: con questa vittoria, l'Urbe divenne una potenza navale e quindi un impero, come scrive Carl Schmitt in Terra e mare: "Roma, che in origine era una repubblica italica di contadini e una pura potenza terrestre, nella lotta contro Cartagine - potenza marittima e commerciale - si innalzò a impero". Il secondo: la vittoria di Roma su Cartagine fu la vittoria di un popolo "politico" su uno "economico" ("Oggi il campo di azione di un nuovo Annibale sarebbe la Borsa o i mercati mondiali", scrive G.P. Baker nel suo Annibale). Terzo e non meno importante motivo: fu proprio la guerra contro Cartagine a far diventare carne e sangue il concetto di humanitas, di vicinanza e di consapevolezza nei confronti del prossimo, che Roma aveva importato proprio in quegli anni dalla Grecia. Me lo spiegò molto chiaramente il mio professore di storia romana all'università: i legionari che combattevano l'uno a fianco dell'altro - e che, dopo la sconfitta di Canne, erano rimasti martoriati nel corpo e nell'animo - sapevano di poter contare solamente su altri legionari. Su altri uomini. Dovevano fidarsi ciecamente di loro perché a loro era stata affidata la vita. E per questo iniziarono a prendersene cura. A fidarsi. Fu così che Roma riuscì, dopo cento anni, a sconfiggere Cartagine.
Di fronte alla sfida del coronavirus, noi (e chi ci governa) abbiamo scelto di percorrere una strada opposta rispetto a quella percorsa da Roma. Per lunghi mesi, le sorti di questo Paese sono state rette da una diarchia composta da paura e virologi più o meno competenti e il concetto di humanitas, ovvero di vicinanza all'uomo in difficoltà, ha lasciato spazio all'egoismo.
Proprio ora che è necessario riscoprire questo concetto, siamo passati da "homo sum, humani nihil a me alienum puto" (sono un essere umano, non ritengo a me estraneo nulla di umano") a "homo hominis lupus" (l'uomo è un lupo per l’uomo). Ma così facendo stiamo, poco a poco, smembrando la società. Stiamo distruggendo il nostro futuro. Che è comune. O non è.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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