Yale e i mostri del politicamente corretto: "Favorisce gli studenti neri e discrimina i bianchi"

L'accusa: a parità di curriculum afroamericani ammessi fino a 10 volte di più

Yale e i mostri del politicamente corretto: "Favorisce gli studenti neri e discrimina i bianchi"

Qualcuno ricorderà un film del 1986, «Soul Man», nel quale un giovane americano bianco si finge nero per poter accedere più facilmente a una prestigiosa università. Quella vicenda mostrava bene come le politiche dette di «discriminazione positiva» (in inglese, affirmative action), volte cioè a favorire alcuni gruppi ritenuti disagiati (non solo la comunità afro-americana, ma anche le donne o gli ispanici), avessero creato nuove forme di diseguaglianza.

Per questo motivo potrebbe avere conseguenze assai significative la decisione del Dipartimento americano di Giustizia di accusare l'università di Yale (uno dei più prestigiosi atenei statunitensi) di operare in maniera discriminatoria verso bianchi e asiatici. Ed è chiaro che un po' alla volta i nodi stanno venendo al pettine, anche perché il presidente Donald Trump ha sempre criticato queste politiche basate sulle «quote», che oppongono i diversi gruppi e irrigidiscono le tensioni.

Negli Stati Uniti sono molti gli studiosi anche afroamericani che evidenziano come tali politiche rigettino l'ideale dell'uguaglianza di fronte alla legge. Come ebbe a scrivere Thomas Sowell, un economista libertario nero, «le norme e le politiche ispirate all'eguaglianza di opportunità esigono che gli individui siano giudicati sulla base delle loro caratteristiche in quanto individui, senza attenzione alla razza, al sesso, all'età, ecc.», come invece avviene con il sistema delle «quote». Lo stesso Sowell ha sottolineato come le discriminazioni volte a correggere le diseguaglianze danneggino pure chi si vorrebbe «aiutare»: questo perché, ad esempio, se per un nero è più facile accedere a Yale, il suo titolo alla fine varrà meno del medesimo diploma in mano a un bianco o a un membro di un'altra comunità (e questo anche se lui è molto bravo!).

Il confronto politico e giuridico sulla «affirmative action» è uno dei più cruciali nell'America contemporanea: e probabilmente il tema sarà riconsiderato dalla stessa Corte Suprema. Nel mondo liberale, in effetti, è forte la consapevolezza che soltanto abolendo simili meccanismi si può evitare alla società statunitense di conoscere una progressiva «balcanizzazione». Come ha sostenuto il giurista Eric S. Dreiban difendendo la scelta del dipartimento di avviare questa procedure concernente Yale, «suddividere iniquamente gli americani in gruppi etnici e razziali rafforza gli stereotipi, i rancori e le fratture»; ed è proprio questo che Trump vuole evitare.

In fondo, è stata una logica «statalista» a imporre tali discriminazioni di legge: è stata l'idea che lo Stato debba favorire alcuni e danneggiare altri.

E questo statalismo si è pure basato su una scarsa fiducia nel fatto che i giovani di taluni gruppi possano eccellere e su una visione sociale che rinvia a comunità contrapposte e in qualche modo nemiche.

Quando l'America tornerà all'universalismo delle regole uguali per tutti, si chiuderà allora una pagina certo poco nobile della sua storia.

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