Un abbraccio e un pianto liberatorio. È stato quello tra la sorella di Patrick Zaki, Marise, e la madre, Hala, dopo una notizia attesa da quasi due anni. Patrick, il ricercatore egiziano di 30 anni, che frequentava un master in Studi di Genere all'Università di Bologna in carcere da 669 giorni, è stato liberato. Non è ancora stato assolto però, e dovrà apparire davanti alla corte di nuovo il primo febbraio. Patrick, durante i 4 minuti in cui è stato in aula fuori dalla gabbia, era vestito di bianco, colore simbolo degli imputati, portava una mascherina nera calata sul mento, codino, occhiali rotondi. Come sempre. Fuori dall'aula del tribunale insieme alla madre e alla sorella, c'erano anche il padre e gli amici. Lo studente invece non era in aula al momento dell'annuncio. Ma poco prima dell'inizio dell'udienza aveva detto «grazie, grazie sto bene» alzando il pollice. Il padre di Patrick, George, dopo la decisione, ha abbracciato i due diplomatici italiani presenti all'udienza e ha detto: «Vi siamo molto grati per tutto quello che avete fatto». Zaki era stato da poco trasferito dal carcere cairota di Tora, dove ha trascorso quasi tutta la sua custodia cautelare, dove dormiva per terra, a una prigione di Mansura, la sua città natale. Immediatamente dopo l'arresto, aveva raccontato il suo avvocato, Patrick era stato torturato. Picchiato, spogliato, bendato, sottoposto a scosse elettriche sulla schiena e sull'addome, insultato verbalmente.
Per molti mesi gli era stata negata la possibilità di comunicare con l'esterno e di ricevere visite dalla famiglia, anche se ufficialmente era stato detto a causa dell'emergenza coronavirus. Ma non finisce qui. C'erano state gravi polemiche sul fatto che le autorità egiziane gli stessero negando le cure mediche. Patrick soffre di asma, oltre che di ansia e depressione. Il suo dolore alla schiena si era aggravato ed era molto dimagrito negli ultimi tempi.
Ma la partita non è conclusa. In tribunale, la legale, Hoda Nasrallah, ha chiesto l'acquisizione di altri atti per dimostrare sia una presunta illegalità durante l'arresto avvenuto il 7 febbraio 2020 all'aeroporto del Cairo che la correttezza dell'articolo sui copti alla base del processo.
I capi d'accusa menzionati nel mandato di arresto sono minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento alle proteste illegali, sovversione, diffusione di notizie false, propaganda per il terrorismo. Inoltre, Patrick avrebbe compiuto propaganda sovversiva attraverso alcuni post pubblicati su Facebook. Il rinvio a giudizio è avvenuto invece per «diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese» sulla base di tre articoli scritti da Zaki. In particolare ne spicca uno, scritto nel 2019, sul giornale Daraj, sui cristiani copti in Egitto perseguitati dallo Stato Islamico, e discriminati da alcuni segmenti della società musulmana. Tema caro a Zaki perché anche lui appartiene alla comunità copta egiziana. Subito dopo la sentenza è arrivato il commento di Riccardo Noury portavoce di Amnesty International Italia: «È un enorme sospiro di sollievo perché finisce il tunnel di 22 mesi di carcere e speriamo che questo sia il primo passo per arrivare a un provvedimento di assoluzione», ha dichiarato. «Non me l'aspettavo.
Non siamo abituati a ricevere buone notizie sul processo, ma oggi sono molto contento per lui, la sua famiglia e per tutti quelli che hanno portato avanti la campagna per la libertà di Patrick». ha raccontato Rafael Garrido Alvarez, amico prima di tutto ma anche ex compagno di studi di Patrick Zaki, quando frequentava il master in studi di genere all'Università Alma Mater di Bologna.
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