Voleva sbaraccare la sede del Nazareno. Ora Nicola Zingaretti, diciassette mesi dopo aver assunto la guida del Pd, all'indomani del tracollo elettorale alle Politiche del 2018, rischia di essere sbaraccato dalla segreteria. Tra i fedelissimi del presidente della Regione Lazio tira aria di fine impero: sono iniziati gli ultimi 20 giorni dell'era Zingaretti. Le elezioni regionali e il pasticcio sul referendum sono gli ultimi colpi di coda del leader democratico.
Nel Pd si allarga sempre di più il fronte tra chi invoca una nuova leadership. Un pezzo di Pd sta già pensando al dopo: un patto tra Graziano Delrio, Dario Franceschini e Stefano Bonaccini (tutti arrivano dall'Emilia Romagna) è stato stretto con l'obiettivo di creare le condizioni per una nuova leadership. Le regionali sono il passo d'addio. Si vota in 7 sette regioni. Per salvare la poltrona, Zingaretti deve compiere un'impresa. Sperando di portare a casa la vittoria in almeno tre regioni (Toscana, Campania e Puglia). Zingaretti doveva essere il leader della transizione dopo il ciclone Renzi. Una transizione che va avanti da 17 mesi. Segnata da errori politici, contraddizioni e sconfitte. Il tempo è scaduto.
L'ultimo a fuggire dal tempio, prima della caduta del regno zingarettiano, è Dario Franceschini. Il ministro della Cultura, punto di riferimento di area dem, sta per passare nelle truppe del nemico (Stefano Bonaccini). Franceschini è considerato il termometro nel Pd: se molla lui, vuol dire che il vento soffia in direzione opposta. Zingaretti è apparso un segretario senza appeal capace di portare a casa una vittoria: la riconferma di Stefano Bonaccini alla guida dell'Emilia Romagna. E collezionare sconfitte dolorose per la sinistra nei comuni di Forlì e Ferrara. E proprio il governatore dell'Emilia rischia di diventare il killer politico di Zingaretti. C'è base riformista, la componente che riunisce gli ex renziani Graziano Delrio e Luca Lotti, che lavora a un nuovo congresso per spianare la scalata a Bonaccini. Si accoda la truppa dei sindaci, da Beppe Sala (Milano) e Giorgio Gori (Bergamo) che affila le armi. C'è l'area che un tempo si definiva Giovani Turchi, con l'ex presidente del Pd Matteo Orfini che chiede la testa di Zingaretti.
A reggere la poltrona del segretario sono rimasti in pochi. Tra cui il braccio destro Goffredo Bettini. Ma ora anche l'ideologo dell'era zingarettiana comincia a nutrire dubbi. Sono troppi i nodi da sciogliere. Tante le contraddizioni emerse in questi 17 mesi. Dall'abbraccio mortale con i Cinque stelle all'innamoramento per Giuseppe Conte. Fino alla recente «cotta» per il ministro degli Esteri Luigi di Maio. Sono tanti i passi falsi che hanno segnato la transizione post-renziana. L'ultimo sul referendum: a 20 gironi dal voto il Pd non ha una posizione chiara. Il 7 settembre si terrà una direzione per ufficializzare l'indicazione di voto: sì o no? Troppo tardi: la base è spaccata.
La trattativa con i Cinque stelle è stato flop: Zingaretti s'è lasciato fregare da Di Maio e company.
In cambio del sì alla riforma, il Pd sperava di portare a casa la riforma elettorale: un proporzionale secco con sbarramento al 5%. Ma l'iter è fermo. Ripartirà il 28 settembre. Quando forse le elezioni regionali avranno già sancito l'addio di Zingaretti.
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