Aldo Schiavone ha scritto un articolo pubblicato sulle pagine della Repubblica intitolato «La solitudine del Cavaliere». Per una volta sono d’accordo con l’autorevole editorialista del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Sì, è difficile negare la solitudine politica del presidente del Consiglio. Sarebbe interessante, tuttavia, discutere delle cause e della natura di questa solitudine. In Italia avviene un fenomeno curioso: Berlusconi è un leader politico che registra un altissimo indice di consenso nell’opinione pubblica, tanto più significativo se paragonato a quello degli altri capi di Stato e di governo degli altri Paesi europei, e nello stesso tempo viene descritta una sua presunta solitudine.
La prima riflessione che scaturisce da questo paradosso è la seguente: questa presunta solitudine non deriva evidentemente dalla mancanza o dalla diminuzione della fiducia e di consenso da parte degli elettori. E siccome la forza di un leader politico deriva dai consensi degli elettori, questa supposta solitudine di Berlusconi non equivale a una debolezza politica.
In che cosa consisterebbe allora questa solitudine?
La mia opinione è che questa solitudine rappresenti quasi plasticamente una profonda estraneità di Berlusconi al mondo politico, istituzionale e culturale dominante in questo Paese.
Un mondo, quello formato dalle alte magistrature istituzionali, dagli instancabili professionisti della politica, da una parte della magistratura e dalla stragrande maggioranza della cultura fanatizzata, un ambiente che è totalmente avulso dalla realtà del Paese, ma che continua a esercitare un potere di veto derivante da un’architettura istituzionale, dalla sedimentazione di norme burocratiche e da privilegi medievali superati dalla storia.
In questo modo gli interessi generali del Paese vengono sacrificati sull’altare della retorica costituzionale, mentre la democrazia viene continuamente svilita come espressione della volontà popolare.
L’Italia è l’unico Paese in cui agisce e prospera una nomenclatura politica, istituzionale e culturale, simile a quella di certi regimi comunisti nella loro fase di declino, capace di accreditarsi come la vera e più autentica rappresentante dell’Italia, in alternativa a tutte le libere consultazioni democratiche.
Questo corto circuito della verità spiega come sia possibile da parte della stampa e dei poteri dominanti far passare una legge come quella delle intercettazioni, in seguito alla quale l’Italia diventerebbe un Paese più moderno, più civile ed europeo, come un attentato alla libertà e alla democrazia; come sia possibile urlare al rischio della dittatura se solamente si accenna a una riforma istituzionale che assegni maggiori poteri al premier o al presidente della Repubblica, in linea con la realtà codificata di tutti gli altri Paesi; come sia possibile contrabbandare una riforma della giustizia che sarebbe la regola perfino nei Paesi in via di sviluppo come un attacco alla Costituzione; come sia possibile affibbiare alla riforma dell’università o delle fondazioni liriche l’etichetta di attentato alla scuola e alla cultura. Questo corto circuito della verità, messo in atto da chi detiene le chiavi ancora oggi non della democrazia bensì della legittimazione democratica o, per citare l’ultima formula in voga, della «lealtà costituzionale», spiega come sia possibile che coloro che utilizzano l’informazione come una clava contro gli avversari politici siano poi gli stessi a denunciare l’assenza di libertà d’informazione.
Se tutto questo è vero, la solitudine di Berlusconi, e la sua percezione di un mondo in cui non si riconosce, è propriamente l’estraneità a un mondo vecchio, conservatore, venato da grossolane ipocrisie, che purtroppo alligna anche nel partito che, nelle intenzioni di Berlusconi, sarebbe dovuto essere una novità assoluta nel panorama politico italiano.
Ecco perché sono convinto che la solitudine di Berlusconi non sia la conseguenza di errori politici, quanto dell’incompatibilità del suo programma di rinnovamento con tutti i conservatorismi della politica politicante, delle istituzioni reali, della cultura dell’odio e perfino di
alcuni interessi economici consolidati. Per questo c’è ancora la possibilità, anzi la necessità, di una rivoluzione berlusconiana.
Sandro Bondi
Coordinatore Pdl e ministro dei Beni culturali
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