«Scrittrice gotica» è l'etichetta che Shirley Jackson (1916-1965) si è vista affibbiare, per via di una sua inclinazione all'horror (piace a Stephen King) e, come nel caso di The Haunting of Hill House (in italiano L'incubo di Hill House), al soprannaturale, fantasmi inclusi. La strada oltre il muro (Adelphi, traduzione di Silvia Pareschi) è il suo romanzo d'esordio, del 1948. Consigliamo al lettore di fissare con un segnalibro le otto pagine di prologo: lì ci sono gli ambienti e tutti i personaggi principali della storia e lì è opportuno tornare quando ci si dovesse cominciare a confondere. Non che la trama sia complicata, anzi. Per pagine e pagine non succede niente.
Sappiamo solo che ci troviamo nel 1936, a una cinquantina di chilometri da San Francisco, in una strada, Pepper Street, che segna il confine tra un sobborgo residenziale e un insieme di grandi tenute. Una via protetta da una boscaglia adiacente a un campo da golf e da un alto muro che ne garantisce la riservatezza. Famigliole borghesi, crisi economica alle spalle. Tutto normale, insomma. In apparenza, ovviamente. Tutto sembra procedere bene finché non comincia l'abbattimento di quel muro del titolo (anche se nell'originale la strada lo «attraversa», «through»), rendendo più evidente la metafora. Questo piccolo mondo benpensante è quello che l'autrice conosce fin troppo bene, essendoci cresciuta, e che vitupera, essendosene sentita fin dall'infanzia un corpo estraneo. Un guscio rafforzato da regole e convenzioni inestirpabili e da strutture famigliari sclerotiche, dove alle madri è affidato il ruolo di pilastri della conservazione. La protagonista, Harriet Merriam, quasi quattordici anni, ha appena iniziato le vacanze scolastiche estive; è grassa, bruttina, e ha per l'appunto una madre velenosa. Trattandosi della sua opera prima, l'autrice deve aver ritenuto di fare subito i conti con i genitori, e la rappresentazione che dà della famiglia di Harriet ha parecchi riferimenti autobiografici: una madre occhiuta e invadente che infrange i segreti epistolari della figlia, spia fra i suoi diari e le sue carte, pretende di selezionarle le amicizie, fa uso di tecniche vittimistiche e manipolatorie; un padre menefreghista, ricoverato nel proprio quieto vivere, a non vedere il disagio adolescenziale ed esistenziale della figlia, fragile ed emarginata. Nessun fratello. In ogni pagina, nelle minuziose descrizioni e nei dialoghi cesellati, si manifesta inesorabile un rumore di fondo, un'inquietudine sottopelle. I bambini e i ragazzi della via Pepper sono, in erba, quello che sono già irrimediabilmente diventati i loro genitori: ipocriti, crudeli, classisti. I maschi già coltivano il disprezzo virile per gli elementi più deboli, le femmine imparano dalle madri la perfidia e il pettegolezzo. Senza darlo a vedere, tutti spiano tutti, tutti controllano tutti. In questo terreno di coltura, i diversi s'inoltrano verso il loro inferno personale. Alla fine, il lettore abbia fiducia, qualcosa accade.
Shirley Jackson, marito insegnante, quattro figli, sofferente di ansia e depressione, sovrappeso, agorafobica, alcolista, inventò mondi fantastici ma ancorati a un quadro di riferimento sociale preciso (ricorda King, in effetti, con le sue micro
comunità del Maine). Conobbe il successo con un racconto lungo, La lotteria, poi più volte sceneggiato, che liberava la media comunità bianca, ben allineata con i sani valori americani, di ogni connotazione rassicurante.
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