Farian Sabahi è ricercatrice senior di Storia contemporanea all'Università dell'Insubria. Padre iraniano, laureata in Economia e commercio in Bocconi e in Storia orientale a Bologna, ha conseguito il Ph.D. in Storia a Londra. I suoi ultimi libri sono il reading teatrale Noi donne di Teheran (2022), Storia dello Yemen (2021) e Storia dell'Iran 1890-2020 (2020). A èStoria parlerà oggi della situazione iraniana. Le abbiamo anticipato alcune domande.
Le proteste in Iran che hanno riempito le cronache dei nostri giornali hanno avuto un punto di partenza «femminile». Qual è la condizione in cui si trovano le donne in Iran?
«La condizione femminile in Iran è contraddittoria. Da una parte due terzi delle matricole universitarie e due terzi dei laureati è donna, al ministero della Cultura sono iscritte più scrittrici che scrittori, le registe sono in prima linea a raccontare un Paese complesso. Dall'altra, le iraniane valgono la metà dal punto di vista legale quando si tratta di testimoniare in tribunale, ereditare, e ottenere un risarcimento in caso di ferimento o morte violenta. Inoltre, per le iraniane è difficile ottenere il divorzio e la custodia dei figli. Se sposate, hanno bisogno del permesso scritto del marito per espatriare. E sono obbligate, per legge, a coprire i capelli con il foulard».
Se guardiamo le foto dell'Iran precedente alla rivoluzione khomeinista si ha l'impressione che, almeno nelle città, le donne avessero uno spazio di libertà, almeno sull'abbigliamento, molto più alta negli anni '70. Era davvero così?
«Nel 1979, anno della rivoluzione iraniana, la popolazione del Paese era la metà rispetto a oggi (86 milioni) e soltanto un quarto viveva in un contesto urbano. Era quella minoranza nelle città a godere di qualche libertà in più nell'abbigliamento. Poter indossare la gonna al ginocchio non equivale però a maggiori diritti. Anche al tempo dello scià le donne sposate dovevano chiedere il permesso scritto del marito per espatriare. E la donna divorziata non poteva più vedere i figli. Paradossalmente, con la rivoluzione del 1979 e l'obbligo del velo sono state le ragazze dei ceti sociali più tradizionali e religiosi a poter approfittare della situazione: con i capelli coperti dal foulard, la segregazione dei sessi nei mezzi pubblici, in un sistema politico chiamato repubblica islamica hanno avuto la possibilità di iscriversi all'università e, in seguito, di occupare i quadri della pubblica amministrazione. Emancipandosi».
Come è stata possibile una regressione così forte? Sulla carta in Iran le donne disporrebbero quanto meno dei diritti politici. Perché la loro condizione è rimasta così critica? Quanto pesa in tutto questo il diritto islamico sciita?
«Il suffragio universale era stato garantito dallo scià nel 1963, era un diritto ormai acquisito e l'ayatollah Khomeini non poté toglierlo. La rivoluzione del 1979 ebbe tante anime diverse. Non fu una rivoluzione soltanto khomeinista, perché a prendervi parte furono anche gli esponenti del partito comunista Tudeh, i guerriglieri Fedayan e i Mujaheddin, nonché i seguaci di Ali Shariati, morto in circostanze non chiare due anni prima della rivoluzione. All'indomani della cacciata dello scià, il 16 gennaio 1979, Khomeini tornò il patria (il 1° febbraio) e i suoi uomini riuscirono a prendere il potere per due motivi: il carisma di questo leader religioso e l'organizzazione della rete delle moschee. Fu lui, Khomeini, a imporre le regole più severe nei confronti delle donne. Interrompendo un processo di riforma che, seppur calato dall'alto in un femminismo di Stato, stava dando i suoi frutti».
La minorità giuridica delle donne è risolvibile mantenendo una democrazia basata sul diritto islamico?
«No, non è possibile una democrazia senza laicità delle istituzioni. Barometro della democrazia sono i diritti delle donne, delle minoranze religiose e di coloro che hanno un diverso orientamento sessuale».
Le rivolte sono partite attorno al velo ma la questione ha rapidamente raggiunto un livello politico diverso. Quali sono adesso le richieste che arrivano dalle donne iraniane?
«La richiesta di abolire l'obbligo del velo è la punta dell'iceberg, in un sistema che nega i diritti fondamentali. Le istanze delle iraniane e degli iraniani sono simili, nel senso che la popolazione chiede diritti e libertà che noi, in Italia, diamo per scontato. Coloro che scendono in piazza chiedono sempre più spesso un cambio di regime, criticano la pessima gestione della cosa pubblica, la corruzione. Imputano alle autorità il prosciugamento dei fiumi e l'inquinamento che obbliga a chiudere scuole e uffici nella capitale».
Quali sono le realistiche prospettive per il futuro?
«È la pioggia a far sbocciare la rosa, non il tuono. Così recita un verso del poeta Rumi, di lingua persiana. È realistico pensare che le proteste continueranno. Le variabili da tenere sotto osservazione sono due. In primo luogo, i pasdaran, ovvero i guardiani della rivoluzione che tanto hanno guadagnato dalle sanzioni internazionali e quindi dalla chiusura del Paese. In secondo luogo, la Cina, che a metà marzo ha mediato l'avvicinamento tra Iran e Arabia Saudita.
In base agli accordi con Pechino, saranno i sauditi a portare in Iran gli investimenti nelle infrastrutture da cui gli europei si sono ritirati a maggio del 2018, quando il presidente statunitense Donald Trump si era ritirato in via unilaterale dall'accordo nucleare con Teheran».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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