Quando il Duce in Africa sguainò la Spada dell'Islam

Nel 1937, giunto in Libia, il capo del fascismo promise alle popolazioni locali «pace e benessere»

Quando il Duce in Africa sguainò la Spada dell'Islam

di Giancarlo Mazzuca

con Gianmarco Walch

Nel marzo 1937 andò in onda l'apoteosi di Mussolini: il coronamento del suo sogno africano, musulmano e islamico. Tutto si consumò in pochi giorni con la missione del duce in Libia, organizzata minuto per minuto da Italo Balbo, il mitico trasvolatore nominato il 1º gennaio 1934 governatore a Tripoli, che allora si rivelò vincente sul piano politico e propagandistico. Una vera e propria passerella che Benito concluse, in sella a un cavallo, sguainando la famosa Spada dell'Islam, simbolo dell'autoincoronazione come «protettore dei fedeli di Allah».

Sbarcato il 12 marzo a Tobruk dall'incrociatore Pola, il capo del fascismo percorse la Via Balbia, la litoranea dedicata a Italo Balbo e da lui voluta, che congiungeva Tripolitania e Cirenaica, fino ad allora sprovviste di proprie reti stradali. (...)

All'inizio della missione il capo del fascismo si mosse con prudenza. A un gruppo di giornalisti egiziani dichiarò: «Dite, dite ai vostri lettori che il Governo e il popolo italiano desiderano vivere con il popolo egiziano nei termini della più cordiale simpatia e amicizia». D'altronde, il viaggio in Libia aveva soprattutto lo scopo di consolidare il consenso attorno al regime, dopo la crisi, a cavallo del decennio, dovuta soprattutto alla riduzione dei salari. Raccontavano le cronache dettagliate dei cronisti al seguito, embedded si direbbe oggi, che il duce aveva visitato città, villaggi e concessioni, passato in rivista formazioni militari, regionali e indigene. Aveva sostato nelle Case del Fascio, nelle scuole. Si era interessato della vita dei coloni e delle aspirazioni dei locali. Al villaggio Luigi Razza, nelle vicinanze di Cirene, l'avevano accolto emigrati dall'Abruzzo e dalla Calabria, ottanta famiglie, seicentoventisette persone. Proseguendo lungo la litoranea, Mussolini aveva inaugurato l'Arco dei Fileni. Notte in tenda, gli ascari a fargli da guardia d'onore. All'alba, alle 5.30, rito dell'alzabandiera, poi in auto all'aerodromo «Arae Philaenorum», la gloriosa e furba reminiscenza dei due fratelli cartaginesi, i Fileni, che si erano scontrati, loro lealmente, in una gara di corsa contro avversari di Cirene: parola di Sallustio. A quel punto, Mussolini salì su un trimotore, rotta Sirte. Quindi Tauorga, Misurata, Tripoli. Vi arrivò poco dopo il tramonto. Alle mura, scese dall'auto e fece un ingresso scenografico a cavallo, primo di 2600 cavalieri. Trionfo. Ovazioni. Bagno di folla.

Il giorno dopo il duce aveva inaugurato la Fiera di Tripoli pronunciando il primo dei due discorsi politici di peso nel corso della missione. (...) «Nel 1926 io venni qui per dare quello che fu chiamato, e come tale rimase nelle cronache, uno scossone alla Colonia. I risultati sono visibili agli occhi di chiunque. Corona, questa opera di trasformazione, la Litoranea libica, impresa gigantesca, che soltanto ingegneri italiani e operai italiani potevano portare a compimento in termine di tempo rapidissimo». Agli altri, ai musulmani, riservò poche parole. E una sintetica assicurazione: «Le popolazioni musulmane sanno che, col tricolore italiano, avranno pace e benessere e che le loro usanze e, soprattutto, le loro religiose credenze saranno scrupolosamente rispettate».

Benito si doveva già barcamenare nelle sabbie mobili della guerra civile spagnola ed era costretto a replicare agli allarmismi «nevropatici» diffusi dalla stampa internazionale: «Questo viaggio è imperialista? Sì, nel senso che a questa parola hanno dato, danno e daranno i popoli virili. Ma non ha disegni reconditi e mire aggressive contro chicchessia. Ci armiamo sul mare, nel cielo e sulla terra, perché questo è il nostro imperioso dovere di fronte agli armamenti altrui». (...)

Il 18 marzo, Benito aveva assistito a un'azione tattica, ammirato una «fantasia» indigena, inaugurato scuole. Finalmente era arrivato all'oasi di Bùgara, dove lo attendevano duemila cavalieri arabi. Quando apparve sulla duna più alta, i tamburi cominciarono a rullare freneticamente al triplice grido di guerra «Uled!». Ed ecco, Mussolini, in sella a uno splendido cavallo, ricevere la Spada dell'Islam finemente decorata con fregi in oro massiccio. A consegnargliela Yusuf Cherbisc, un capo berbero grande sostenitore dell'alleanza con gli italiani, che si rivolse al duce con queste parole: «Vibrano accanto ai nostri animi in questo momento quelli dei musulmani di tutte le sponde del Mediterraneo che, pieni di ammirazione e di speranza, vedono in te il grande uomo di Stato, che guida con mano ferma il nostro destino».

Benito sguainò la spada puntandola verso il sole. E lanciò a sua volta il grido di guerra.

Con tutto il seguito, rientrò poi a Tripoli: in piazza Castello l'attendeva una folla immensa. Sempre a cavallo, la spada assicurata alla sella, Mussolini era salito su una piattaforma di terra pressata. «Saluto al duce!» ordinò Balbo, che aveva fatto proprio un recente ordine di servizio: il capo del fascismo viene prima del re. «Uled!» urlarono ancora, tre volte, i cavalieri arabi, ritti sulle staffe. Un imperioso cenno di silenzio. A quel punto, fece risuonare le parole tanto attese, anche dalle cancellerie europee: «Musulmani di Tripoli e della Libia! Giovani Arabi del Littorio! Il mio Augusto e Potente Sovrano, Sua Maestà Vittorio Emanuele III, Re d'Italia e Imperatore d'Etiopia, mi ha mandato, dopo undici anni, ancora una volta su questa terra dove sventola il tricolore per conoscere le vostre necessità e venire incontro ai vostri legittimi desideri». E la spada? «Voi mi avete offerto il più gradito dei doni: questa spada, simbolo della forza e della giustizia, spada che porterò e conserverò a Roma fra i ricordi più cari della mia vita. (...) L'Italia fascista intende assicurare alle popolazioni musulmane della Libia e dell'Etiopia la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta e vuole inoltre dimostrare la sua simpatia all'Islam e ai Musulmani del mondo intero». Quindi, non solo Tripoli e Addis Abeba, ma anche Egitto, Palestina, Siria: dovunque i muezzin diffondevano la parola di Maometto. Chiusura con un ultimo punto esclamativo: «Voi sapete che io sono un uomo parco nelle promesse, ma quando prometto mantengo!». Con la spada brandita, il duce aveva lanciato il suo grande messaggio. (...)

A coronamento dell'operazione, l'anno successivo, nella stessa piazza Castello di Tripoli verrà eretto un monumento a Mussolini. L'iscrizione sul basamento di travertino era tutta un programma: «A Benito Mussolini/ pacificatore/ redentore della terra di Libia/ le popolazioni memori e fiere/ dove fiammeggiò la spada dell'Islam/ consacrano nel segno del Littorio/ una fedeltà che sfida il destino». Il dado era, ormai, tratto. (...)

Dalla sfida con il destino anche la Spada dell'Islam, non solo il fascismo, uscì sconfitta. La sua sorte la rivelò Rachele Mussolini: «Era conservata in una teca di vetro alla Rocca delle Caminate. Fu rubata nel 1943, quando la Rocca venne devastata dagli antifascisti». (...) Probabilmente neppure lei sapeva che il simbolico manufatto non era stato forgiato da abili artigiani berberi, come voleva la leggenda, ma era d'importazione toscana: prodotta dalla ditta Picchiani e Barlacchi made in Florence.

E forse non sapeva neppure che la fotografia di Benito a cavallo che sguaina la spada era un falso. Be', non totalmente. Solo era stato cancellato il palafreniere che, per sicurezza, reggeva le redini al quadrupede. Vizio classico dei regimi, manipolare le foto... E non solo.

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