Quando l’alcol brucia i cuori

In «Al centro dell’inverno», esordio narrativo di Marya Hornbacher, un dramma famigliare «a tre voci» nella provincia statunitense

Dopo la pazza estate che abbiamo avuto, è davvero difficile dire se qualcuno senta il bisogno dell’inverno. E l’inverno è proprio al centro del romanzo d’esordio di Marya Hornbacher. O meglio, è il suo romanzo che sta Al centro dell’inverno (Corbaccio, pagg. 426, euro 17,60). È proprio questo il titolo e, metaforicamente, pure il tema della storia minimalista della scrittrice di Minneapolis. Una storia ambientata lontano dai clamori della grande città. Una storia familiare che trova nei gelidi inverni del Midwest americano la sua collocazione naturale. Tanta neve, tante casette bianche in legno, Vietnam, birra, caffè solubile, sale da biliardi, juke-box, Johnny Cash. Tanta America.
La famiglia Schiller sarebbe una famiglia normalissima della grande, spesso anonima, provincia americana. Ma la famiglia Schiller vive il dramma della lenta disintegrazione di Arnold, marito e padre, incapace di accettare la malattia mentale del figlio Esaù e la propria fragilità. Moglie e marito si palleggiano responsabilità che nessuno ha, invece di affrontare il vero problema di un matrimonio che si fonda su un amore antico ma ormai privo di stimoli nuovi. «Ero seduta sul sedile posteriore e vedevo la sera che calava sulla prateria bianca ignara del fatto che sui sedili davanti il matrimonio dei miei genitori aveva una crepa nel mezzo come un lago ghiacciato: profonda, invisibile, inspiegabile». Arnold cerca di anestetizzare le proprie paure con l’alcol e, come in milioni di altri casi, la sua disperazione si amplifica fino al gesto estremo del suicidio.
Fin qui, nulla di straordinario. Tanti, forse troppi romanzi americani ci hanno fornito un quadro desolante della disgregazione del tessuto sociale familiare nella sonnolenta provincia, corrosa dalla crisi del mondo del lavoro e dal vacillare di convenzioni sempre più difficili. Ma la Hornbacher non calca mai la mano e dosa con equilibrio i toni cupi e disperati dell’inverno dei cuori, con il sorriso della speranza che non muore con l’autodistruzione.
La storia viene raccontata da tre diversi punti di vista: quello di Claire, la mamma, e quelli di Kate, la figlia più piccola, ed Esaù, il figlio malato di una sorta di strana schizofrenia. Una materia come la sopravvivenza di una famiglia al suicidio di un suo membro potrebbe risultare indigesta ed è invece nella descrizione della vita che va avanti, soprattutto di piccole cose come fare la spesa, non lasciare che la torta bruci nel forno o giocare a carte, che il tono resta lieve. Se l’alcol e la disperazione recitano un ruolo primario, la voglia di Esaù di convivere serenamente con la propria diversità, quella di Kate di vivere i suoi sei anni come dovrebbe una bimba della sua età e quella della mamma Claire di rifarsi una vita, strappano molti sorrisi convinti, senza esagerare con lo zucchero. La parte in cui è Esaù a parlare in prima persona risulta persino travolgente. Ed è la voce dei due bambini a dare grande spessore emotivo a una vicenda che altrimenti rischierebbe di essere simile a tante altre. Senza scordare l’elegante leggerezza della scrittura.
«Ormai sapevo cos’era l’alcol, forse sapevo anche che era quello che l’aveva ucciso».

Bisogna saper scrivere per mettere queste parole in bocca a una bimba di sei anni senza dare la sensazione che sia un adulto a parlare. C’è spazio persino per un finale quasi thrilling che spinge il lettore a scoprire come va a finire il libro e non solo a centellinarne le pagine.

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