Quando Nenni consolò Edda Ciano con una mela e Spadolini era vittima di Missiroli

«Un bambino e la storia» di Ugo Intini: la vita sotto le bombe degli «Alleati», la ricostruzione, l'alba della Repubblica. I fenomenali ricordi raccolti dall'ex direttore dell'«Avanti!» partendo dagli occhi di un bimbo per ritrovare la strada smarrita di una «memoria condivisa» da tutti

Mica facile scrivere della memoria. Pescare all'interno di sé, nel profondo, bagliori di ciò che abbiamo vissuto. A volte arrivano su, all'amo che abbiamo innescato, ricordi persino inattesi, prima inafferrabili, che misteriosamente si fanno avanti senza pudore. Altre volte, a dispetto dei potenti fasci di luce inviati giù, la ricerca di un particolare che ci sembrava fondamentale invece stenta a venir fuori. E quando magari sbuca, ecco che svapora nella risalita, appare meno importante o del tutto inifluente.
È uno sforzo imponente dell'anima - dell'Io, se si preferisce - andare a pesca nella memoria. Peggio, se si è nati nel 1941 e ci si trova, per coerenza e completezza, a interrogare ciò che resta di eventi storici capitati soltanto due anni dopo. Eppure Ugo Intini - già direttore dell'Avanti!, deputato socialista di lungo corso, uno dei pochi a essere uscito intero, specchiato e a testa alta dal ciclone di Tangentopoli - ci riesce. Da qui, dai bombardamenti feroci del terzo anno di guerra, decide di partire per la sua ultima fatica, «Un bambino e la storia - 1941-50: memoria per unire. I bombardamenti, la guerra civile, la ricostruzione» (Ponte Sisto, 16 euro). Libro uscito già da un po', ma davvero insolito per il timbro da saggista politico che aveva dominato i precedenti lavori di Intini, e forse più congeniali all'uomo e giornalista che ha vissuto l'intera vita profondamente «calato» nelle vicende del Paese. Segno di un impegno civile probabilmente oggi non più «di moda».
Il fortuito passaggio per il paesino del Torinese nel quale la sua famiglia era «sfollata» durante la guerra, Balangero, pare folgorarlo e richiamare alla sua mente flash del passato, la «macchina del tempo» che lo risucchia e magicamente lo convince che «avevo visto abbastanza per poter andare indietro, ricostruire e far rivivere frammenti del periodo tumultuoso in cui è nata l'Italia. Non da storico, perché non lo sono, ma da spettatore bambino prima, da ascoltatore poi».
Già, perché per ben raccontare occorre sapere ben ascoltare. Ed è anzitutto per questo, che il libro andrebbe fatto adottare nelle scuole, o almeno in qualche scuola di giornalismo: per la capacità di raccogliere testimonianze, di costruire ricordi sbiaditi o impossibili (considerata l'età dell'autore all'epoca di molti degli eventi), di documentarli da giornalista vero (persino fin troppo accurato, verrebbe da dire, laddove dati e numeri interrompono il fluire della memoria). Esempio di metodo, ed esempio di impegno civile anch'esso, questo lavoro certosino che ormai certa «liquidità» tecnologica fa ritenere superato, e invece costituisce il sale della vita pubblica (e privata).
Andrebbe proposto ai giovani di oggi, questo volume di 259 pagine dalla prosa fluida ma non per questo leggera. Anche per illuminare, in modo sicuramente più interessante di certi libri di storia, l'alba della nostra Repubblica, dove cominciano a muoversi personaggi che saranno Padri della Patria, dove certe dinamiche spiegano il dispiegarsi successivo dei fatti, dove l'obbiettività maniacale è quasi sempre foriera di giudizi condivisibili proprio perché non calati dall'alto, bensì dimostrati e dimostrabili. Oggi che prevale il «sapere superficiale» dei «nuovi barbari» cantati da Baricco (o almeno non abbastanza vituperati), un libro del genere rappresenterebbe in maniera lampante perché non gettare il bimbo con l'acqua sporca, perché doversi impegnare ancora, perché - come vorrebbe in un impeto di giovanile entusiasmo dell'autore - gli italiani dovrebbero ritrovare la possibilità di una "pacificazione". Di un sentire comune che inviti ciascuno ad assumere il punto di vista anche dell'avversario, e che invece proprio oggi appare inattuale più che mai.
Ma come non ascoltare incantati il racconto della vita di guerra nella Milano martoriata dalle bombe di coloro che diventeranno gli «Alleati»? Come non condividere le ragioni - ricostruite con dovizia - che portarono i guerreggianti, ma in particolar modo proprio coloro che si sarebbero arrogati il diritto di diventare «giudici dei vinti», a utilizzare i bombardamenti proprio per terrorizzare la popolazione, e dunque come dei veri e propri «terroristi»?
Forse interrompono il fluire dei ricordi, le tante considerazioni dell'autore, e danno al libro uno strano timbro, a metà tra la testimonianza che cattura il cuore e il ragionamento che conquista la mente. Ma come fare a non incedervi, di fronte all'enormità dello sdegno, a certe delusioni postume, alla falsità delle ricostruzioni di comodo? Intini non resiste, si vede che la natura del politico prende il sopravvento sull'aneddotica che pure abbonda di particolari gustosissimi. Come quello, per esempio, della carriera del giovane Spadolini dovuta, secondo Afeltra, alle cospicue «pacche sulle cosce» regalategli dal direttore Missiroli nei lunghi giri notturni per la città a bordo dell'automobile del Corriere della Sera. O alle altrettanto lunghe passeggiate notturne del sindaco socialdemocratico di Milano, Cassinis, che al termine del Consiglio comunale chiamava il giovane ma combattivo assessore (all'Economato) Bettino Craxi intimandogli: «Vieni qui, Bettino, vieni a fare una passeggiata con me, ché mi racconti cosa succede in politica!». Sparivano nelle vie del centro fino quasi all'alba, per poi magari ritrovarsi con qualche giornalista in un'osteria di via Cadore che apriva alle quattro del mattino per offrire una «trippa favolosa» agli scaricatori del mercato al primo turno. O ancora: il già vecchio Pietro Nenni che «dava importanza alle piccole cose come chi viene da una tradizione di povertà contadina» e s'informa degli alberi di mele della fattoria di Italo Pietra (poi direttore del Giorno), chiedendogli di mandargliele. E che alla sfortunata Edda Ciano, in visita alla moglie nel Dopoguerra, consegna una di queste mele per lui così importanti dicendole: «Ci prenderanno a torsoli», che per Nenni significava il riconoscimento di un errore e il timore per la potenziale impopolarità. Un Nenni che sembra di vedere, assorto a dettare un pezzo per l'Avanti!, virgole comprese, al giovane Intini. O che, sempre a occhi chiusi, come disfatto dagli eventi, comunica al collega il titolo su Piazzale Loreto, dove s'era fatto scempio del cadavere del suo antico compagno di cella Mussolini, con voce sottile e distante: «Giustizia è fatta».
Tale e tanta, la messe di ricordi personali - dal Pertini deputato che dorme con la moglie nel suo ufficio al Lavoro di Genova al giovane Cossutta che rifiuta la comunione di Schuster in carcere - che non si può far torto all'autore raccontandone soltanto accenni.

Sembra quasi di rompere quell'incanto della memoria che illumina il passato, che ci fa piombare nel rimpianto di una Milano irripetibile e gravida d'ogni energia. Nel rammarico, condiviso con l'autore, di un Paese che ha smarrito la sua strada.

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