Quanta propaganda nei funerali rossi

Gian Piero Piretto racconta la funzione politica e ideologica delle esequie sovietiche

Quanta propaganda nei funerali rossi

All'indomani del cosiddetto «decabrismo» del 1825, la rivolta contro Nicola I schiacciata sul nascere, la Russia entrò in una fase in cui idealismo romantico di stampo liberale e nichilismo rivoluzionario di matrice anarchica e insieme messianica si scambiavano le parti e spesso si ritrovavano avvinghiati a un terzo incomodo che, di volta in volta, se non contemporaneamente, le impersonava e altro non era se non la polizia segreta zarista, abilissima nel fomentare come nel reprimere. Dietro ogni agitatore, teorico o militante che fosse, c'era insomma un poliziotto a spiarlo, e spesso si trattava della stessa persona...

A metà Ottocento, sull'onda del quarantottismo europeo, la dissidenza russa si arricchì di un nuovo elemento, come racconta Gian Piero Piretto nel suo L'ultimo spettacolo (Cortina editore, pagg. 232, euro 19), ovvero i «funerali politici», meglio conosciuti come Kransye pochorony, i «funerali rossi». Era un cromatismo simbolico e ideologico, perché se da un lato entrava in competizione con il giallo dei paramenti sacri e dei gonfaloni confessionali delle processioni religiose ortodosse, una sorta di laicismo come fede politica, dunque, dall'altro manteneva l'antica consuetudine di lastricare le strade con rami d'abete rosso, «designazione simbolica dell'ultimo percorso lungo una strada pura» e insieme recupero di antichi culti pagani fatti propri dal cattolicesimo. Il colore nero restava appannaggio del corteo di amici, parenti, ammiratori e semplici curiosi che accompagnava la bara del defunto, e dell'oratore chiamato a ripercorrerne la vita e le opere. Eterna memoria era il canto liturgico della Chiesa ortodossa che accompagnava le esequie, a cui spesso si univa, quando non si sostituiva o si contrapponeva l'inno, diciamo così, laico Sei caduto vittima, inglese come origine (Not a Drum Was Heard, Not a Funeral Note), ma tradotto in russo nel 1826 e da allora divenuto patrimonio nazionale. Ancora negli anni Cinquanta del Novecento, Dmitri Sostakovic ne inserirà la melodia nel terzo movimento della sua Sinfonia n°11, sottotitolata L'anno 1905, in ricordo della prima, e fallita, insurrezione «rossa» nella Russia zarista. Grazie a quest'opera Sostakovic, che era sopravvissuto alle purghe staliniste, ma era stato relegato ai margini della vita intellettuale in quanto compositore decadente, ottenne la riabilitazione e il premio Lenin...

Fino alla Rivoluzione d'Ottobre, i «funerali rossi», per quanto laici si potessero o si volessero definire, continuarono ad avere a che fare con l'anima religiosa del popolo russo, l'umile fossa scavata nella «madre terra», la preghiera e i rituali, i fiori e i paramenti... Il cambio di regime, la nascita dell'Urss come unione di repubbliche socialiste e sovietiche, portò con sé il tentativo di sradicare una fede che era anche una memoria collettiva, ovvero «il risultato di un ricordo», sostituendola con un ateismo di Stato capace di incarnare, sublimandola, quella che era l'edificazione di un nuovo ordine sociale, morale, ideologico e politico, terreno e non trascendente, un po' come la Rivoluzione francese, un secolo prima, aveva cercato di fare, senza successo, con il culto della Dea Ragione prima, dell'Essere supremo dopo...

Il sottotitolo del libro di Piretto è «I funerali sovietici che hanno fatto la storia» e rimanda, appunto, all'utilizzo della morte come strumento di propaganda da parte del potere politico è il caso, fra gli altri, delle esequie di Lenin, di Stalin, di Gagarin- , oppure come atto di sfida al potere, le manifestazioni funebri in onore di poeti come Esenin o Achmatova, per certi versi Majakovskij.

Nel primo caso, Piretto parla di un vero e proprio «culto della morte per la patria» che da Lenin e da Stalin arriva poi sino a Putin, «le cosiddette morti giuste affrontate per la nazione», e vede nel suo ultimo capolinea un rimando «farsesco» al passato sovietico, nonché una evocazione, «in maniera ancora più tragica» degli «ideali nazisti». Vale la pena sottolineare che, più in generale, si tratta semmai di un elemento distintivo del totalitarismo in sé e dove il diritto di progenitura in materia ce l'ha il bolscevismo, non il nazionalsocialismo, e che altresì il «culto dell'eroe» caduto per la patria fa anche parte delle democrazie occidentali, così come, nel caso del conflitto russo-ucraino, riguarda entrambi gli schieramenti in campo.

Più interessante è notare come, inizialmente, il «culto dei caduti» della Rivoluzione bolscevica avesse a che fare con una sorta di «immortalità sociale» che prendeva il posto dell'«obsoleta vita eterna religiosa». Erano insomma morti per la causa, non per la nazione, tantomeno per la patria, concetti che il comunismo aveva espulso dal proprio orizzonte di valori. Le tombe di quei morti erano «sepolcri viventi» che andavano a cementare la creazione di un nuovo ordine in cui i bambini non venivano battezzati, ma «ottobrati» e i suoi santi del calendario si chiamavano Oktijabire, da ottobre, Barirkad, da barricata, Tratorine, da trattore, Industrjaizacij, fa industrializzazione... In quest'ottica, la morte come fatto privato, non pubblico, individuale, non collettivo, non aveva più spazio. Non esistevano più «persone qualunque», ma il compito di ogni buon comunista era di vivere e morire in quanto tale, eroicamente, insomma...

Tutto ciò darà vita, in specie a partire dagli anni Trenta, a una sorta di «melodrammi nazionali», spettacoli di massa che mettevano in scena vite esemplari quanto ideologicamente corrette: la sorella o la vedova di Lenin, lo scrittore Maksim Gor'kij, il segretario del comitato centrale Kirov... Sul fronte opposto, c'erano solo le «ceneri non reclamate», a testimoniare l'espulsione dalla vita e dalla stessa morte dei «nemici del popolo», ovvero di chi non era degno di essere ricordato: fosse comuni, niente cerimonie, tantomeno pietre tombali, i crematori come anonima livella finale.

Lo spartiacque fra il prima e il dopo sarà la Seconda guerra mondiale. Per vincerla, Stalin recupererà tutto ciò che il bolscevismo aveva voluto, è proprio il caso di dire, seppellire: la terra e la patria, la Santa Madre Russia e i pope, la nazione: l'eroe sociale cedeva il passo al combattente, almeno sino alla vittoria finale...

Nel dopoguerra, l'apoteosi di tutto ciò saranno i funerali di Gagarin, dove l'eroe sociale era anche un eroe militare, per quanto sui generis, l'uno e l'altro emblema di quel «primo uomo nello spazio» che per un momento aveva illuso l'intera nazione su un futuro radioso: c'era stata la destalinizzazione, era cominciato il «disgelo»... L'urna «con le ceneri e tutti i suoi fiori» venne portata a spalle da Breznev, nuovo segretario, e Gromyko, ministro degli Esteri e murata nelle mura del Cremlino.

«La lenta marcia delle corone, poi degli ufficiali che portavano le onorificenze rispettava la tradizione delle esequie di Stato sovietiche ancora modellate sulle sempre più remote processioni religiose». Dietro l'Urss, era la Russia eterna a scandire ancora una volta il suo: «Presente».

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