Il principio sembrerebbe assertivo: «non so più amare». Se non fosse che la subordinata è già una confessione che mostra una fragilità, un cedimento, una giustificazione generalizzante: «chiedo perdono a tutti». È così che comincia il nuovo romanzo di Yari Selvetella, Vite mie (Mondadori, pagg. 250, euro 18,50), e si comprende fin da subito che la narrazione si muoverà su un doppio binario. Da una parte la ricerca di una risposta - sull'amore, sull'esistenza, sullo stare al mondo, sulla famiglia, sul tempo -, dall'altra il dubbio che la stessa ricerca sia un alibi.
Il protagonista e voce narrante è Claudio Prizio, un giornalista radiofonico che vive in una famiglia particolare. Con lui abitano quattro figli, ma non sono tutti suoi. Due sono nati da G., la donna alla quale era legato ma che è morta. Il terzo figlio è il frutto del loro amore. L'ultima nata Claudio l'ha concepita con Agata, la nuova compagna. I legami di sangue sono complicati o addirittura inesistenti. E pure la casa in cui tutti convivono non appartiene a nessuno se non a G., che non c'è più. Quella casa è, in una certa misura, lo spazio vuoto, il baratro, l'assenza che incombe. Nel lungo soliloquio, Claudio cerca di trovare una ragione a questo sentimento di inappartenenza, del vivere una vita che forse non è la sua; del vivere una vita dalla quale sembra, pagina dopo pagina, prendere le distanze. «Non sono solo, la casa è piena di stanze in cui dormono i miei amori, i figli, la mia compagna. Non c'è bisogno che sappiano. Se stanotte mi vergogno della mia vita interiore, non è la prima volta».
Claudio si nasconde, non è più lui, forse è quelle persone che incontra casualmente e a cui crede di somigliare. È un riflesso, un'irradiazione. Più il suo tempo si fa dubitativo, sussultorio, interrogativo, più vive una vita tutta interiore, più profondo diventa il distacco da se stesso. Eppure, in questa forma di evasione, o nascondimento dal mondo, e prima che dal mondo da quelli che ama, Claudio capisce che lo spazio in cui è entrato è quello in cui la vita e la morte coabitano. «Non riesco a non pensare che, da adulti, quello che cerchiamo in una casa, più che un riparo, è che allieti la nostra progressiva estraneità dal mondo».
Il nodo del romanzo mi sembra essere tutto qui, in quella separazione dal sé che si comprende essere un dono. Claudio, dubitando, non fa altro che donare qualcosa di sé a chi gli sta accanto. Ma ciò che dona né i suoi figli né la sua compagna possono davvero sapere cos'è. È qualcosa di più profondo, addirittura di più abissale della memoria. È il segreto della sua e dell'esistenza di tutti.
Ciò che resterà di noi, di una madre che già non c'è più, della vergogna di un padre che ama, non è un cimitero di ricordi, ma una porta aperta, una feritoia a cui abbiamo affidato la nostra vita col rischio che un soffio di vento o una bufera possano cancellare tutto: i gesti, le discussioni, i silenzi, le gioie, il dolore. Ma anche continuando a credere che dalle macerie di una casa vuota possa sempre risuonare la verità della vita di ognuno.
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