Un museo documenta; non propone necessariamente capolavori, definizione opinabile e transitoria nelle alterne fortune dei maestri. Dante non piacque per gran parte del Seicento e del Settecento, come ha dimostrato l'impeccabile e imperdibile - ma da molti perduto - convegno sulla sua fortuna nelle sale della Accademia dei Lincei, in palazzo Corsini, sotto la illuminata presidenza del filologo Roberto Antonelli: «La ricezione della Commedia dai manoscritti ai media». Non è il gusto di un critico o il suo personale giudizio che promuove o stronca un artista, il criterio che guida le scelte di un museo. Così appaiono sbagliate e pretestuose tutte le affermazioni di Demetrio Paparoni e di Elio Cappuccio, uno un critico mancato, l'altro un filosofo senza esperienza d'arte, i quali hanno, sommersi di fischi, ma emulati da un'altra incompetente, sparlato e sparato ad alzo zero contro Julius Evola, facendosi forti di un severo giudizio di Umberto Eco, senza alcun riferimento alla sua pittura tra il 1915 e il 1921, prima della nascita del Fascismo, e ignorando che, proprio parlandomi di Evola, Eco mi aveva manifestato la sua curiosità per il pittore, ricordando l'intelligente posizione di Enrico Crispolti. I due tordi, nelle vesti fittizie e a loro inadeguate del Gatto e della Volpe, si sono espressi in modo indegno sulla ben documentata, e certo non esaltata, esperienza pittorica dadaista di Evola, da me voluta e presentata al Mart di Rovereto.
L'obbiettivo infatti non è Evola. Sono io, sgradito alla presidenza del Mart. A loro vorrei dire che, anche ammesso che Evola non fosse paragonabile a Balla, lo stesso può dirsi (e lo dice il Vasari) di Giovanni Santi rispetto a suo figlio Raffaello. Nondimeno Palazzo Ducale di Urbino gli ha dedicato una mostra monografica, certamente utile. Eppure Vasari scriveva di lui: «pittore non molto eccellente e, anzi non pur mediocre in questa arte». I due incontinenti, su un giornale inesistente che esce sempre il giorno dopo (il Domani), hanno scritto qualunque cosa, con supponenza e presunzione, senza veramente guardare i quadri. Apre il Cappuccio: «A questa mostra va dato il merito di dimostrare che Evola non è stato presto dimenticato, come pittore, per le sue idee, ma semplicemente perché è stato un pittore modesto». Non spiega perché, ma conclude, sconoscendo che la storia dell'arte è storia di riscoperte e che Caravaggio, per loro assassino prima che pittore, per esempio, fu «oscurato» fino al 1951: «Confrontandosi con le avanguardie, Evola ha presto compreso che quanto i suoi compagni di strada cercavano non rientrava nella sua concezione del mondo. Diversamente, come quelli di Emile Nolde, i suoi dipinti sarebbero stati tenuti in buon conto». Come se la sua affermazione o riscoperta dipendesse da lui. Considerazione incomprensibile se si pensa a quanti artisti sono stati scoperti e apprezzati tardivamente (Alessandro Rosi, Bernardino Mei, ma anche Wildt, Antonio Donghi o Wilhelm von Gloeden).
Poi Cappuccio perde il filo, e inizia a divagare, per spingersi, fuori campo, ai Protocolli dei Savi di Sion presentati da Evola nel 1938 (!), che in realtà è il '37, un altro Evola, come il Rimbaud di Aden è altro rispetto al Rimbaud di Parigi, Londra e Bruxelles; e a massacrare l'Evola politico, reazionario, fino a rimproverargli, fuori tempo massimo, di avere ispirato Putin (senza timore del ridicolo, e seguito, con temeraria fedeltà, da Marina Serra, sulla ignara Stampa, con lo sgomento Giannini, che ospita il plagio). L'antistorica conclusione è impressionante, coinvolgendo anche, senza pudore, René Guenon: «Guenon ed Evola, il mito della Grande Madre Russia e della Terza Roma, possono essere utili per alimentare il dispotismo».
Da questi deliri, pur condivisi, cerca di allontanarsi Paparoni. In una Newsletter irricevibile scrive: «A incuriosirmi realmente era la mostra dedicata a Julius Evola, nata da un'idea di Vittorio Sgarbi. Non amo affatto Evola. Trovo le cose che ha scritto indigeribili, ma i quadri sino a quel momento li avevo visti solo in fotografia. E la fotografia, si sa, inganna: rimpicciolendo l'immagine corregge le indecisioni della mano, non fa ben percepire l'impasto e la consistenza della materia e comunque non consente di dare un giudizio corretto in quanto favorisce i pittori meno dotati e penalizza i più bravi». Tenta l'equidistanza, incartandosi, come se mai avesse capito la qualità della pittura, e mentendo: «Sono andato alla mostra animato da buona volontà. Poi mi sono trovato dinanzi ai quadri di Evola e sono rimasto sconcertato: che ci fanno dei quadri di un pittore così mediocre in un posto come il Mart? Ancora di più mi ha stupito leggere in catalogo che Evola-pittore sarebbe un protagonista del primo Novecento che ha dato un contributo a quello stesso modernismo che poi ha denigrato in tutti i modi possibili e immaginabili. Se si guardano le date dei dipinti, appare chiaro che Evola non ha dato nessun contributo innovativo al modernismo, perché ha sempre dipinto guardando i futuristi senza nemmeno arrivare a sfiorare la grandezza di Balla, Boccioni o Severini». Continua, il temerario, disperdendosi: «Non sorprende che, in un periodo storico segnato da sovranismo e derive autoritarie si tenti di valorizzare la figura di Evola pittore. Il titolo della mostra poi, Julius Evola. Lo spirituale nell'arte, creando un'associazione con l'arte di Kandinskij, suona come uno spericolato equilibrismo critico. Altro che vittima di damnatio memoriae, come sostiene Sgarbi in catalogo. Ci troviamo dinanzi al tentativo di sfruttare la sana opposizione alle orrende tesi sulla cancel culture per dare importanza, attraverso il suo mediocre lavoro di pittore, a un filosofo caro all'estrema destra. Artisti come Emil Nolde, Maurice Vlaminck, André Derain o Mario Sironi sono stati nazisti, collaborazionisti o fascisti, ma le loro opere trovano posto nei maggiori musei». Paparoni sembra ignorare, nei confronti scelti, gli evidenti limiti di Vlaminck rispetto, per esempio, a Soutine, o di Derain rispetto a Balthus. Ma vuole infierire, non perdona, dimenticando di quanti mediocri si è occupato: «Le pennellate sono goffe, le linee incerte, la definizione dei punti di contatto tra le diverse masse pittoriche testimonia scarsa padronanza tecnica. A farla breve, come pittore Evola non spicca né per abilità tecnica né per originalità. Il suo è un velleitario tentativo di tradurre visivamente un problematico travaglio filosofico ed esistenziale». Così Paparoni può concordare con Cappuccio: «Evola era il simbolo del rifiuto della modernità e delle democrazie liberali. Ecco perché nel progetto eurasiatico di Aleksandr Dugin, che alimenta la politica di Putin contro l'Occidente, Evola diviene un alleato contro l'Europa e gli USA».
Bum! Non esistere dà alla testa. Demetrio Paparoni da tempo non esiste, come i giornali su cui scrive. Inutile rispondere. Lo fa, da par suo, il mio nemico Giampiero Mughini: «Quanto alla disputa se siano o no da mettere in mostra i quadri del periodo dadaista di un tipino (qualcuno direbbe un tipaccio) quale Julius Evola, sono d'accordo fino all'ultima riga con quanto sostenuto da Vittorio Sgarbi... Sono opere fra le più importanti dell'avanguardia italiana degli anni Venti e più precisamente del suo minuscolo nucleo dadaista, un'avanguardia di cui in quel momento Evola era un protagonista primario. Poi venne quella sua seconda vita, e questo per tutta la durata del fascismo, di teorico di una forma spirituale di antisemitismo che lo portò a rifugiarsi nella Germania nazi al tempo delle ultime battute della Seconda guerra mondiale... Nella casa in cui l'Evola paralizzato alle gambe trascorse gli ultimi venti e passa anni della sua vita ci sono stato. Alle pareti di quel piccolo appartamento c'erano i quadri dadaisti di Evola. Bellissimi. Solo che erano delle copie. Era successo che nei primi anni Cinquanta Achille Perilli, uno dei primattori dell'avanguardia artistica romana del secondo dopoguerra, uno che quei mirabili quadri li conosceva, portasse a casa di Evola il gallerista e collezionista ebreo milanese Arturo Schwartz, quello che nel frattempo era divenuto il più grande esperto di dadaismo al mondo. È stato Perilli a raccontarmelo. Schwartz ci mise meno di un minuto a chiedere a Evola che glieli vendesse tutti. Evola che non aveva di che vivere disse di sì, solo che se ne fece delle copie per averne un ricordo... Nella mia collezione di prime edizioni del Novecento italiano mancano i due mirabolanti libri dadaisti di Evola, pubblicati entrambi a Roma in pochissime copie... Una meraviglia. Da morire da quanto era smagliante di creatività. Da mettere in mostra? A dire poco».
Come abbiamo fatto, ovviamente. In realtà sperando che i due gonzi (e la ganza) abboccassero per far parlare di Evola, per dargli Eco.
Per concludere: «Oh gran bontà de' cavallieri antiqui!/ Eran rivali, eran di fé diversi,/ e si sentian degli aspri colpi iniqui/ per tutta la persona anco dolersi;/ e pur per selve oscure e calli obliqui/ insieme van senza sospetto aversi». Dall'altra parte, il niente.
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