Quando Mussolini precipitò, sull'onda di calcoli tragicamente sbagliati, l'Italia nella Seconda guerra mondiale, molti antifascisti dichiarati si trovarono in una situazione dolorosa e complessa. Aveva senso combattere per la libertà contro la propria Madrepatria? Era una scelta moralmente accettabile? Si trattava di una battaglia per la libertà degli italiani o di un tradimento? E anche scegliendo di impugnare le armi contro il fascismo, magari dando vita ad azioni di sabotaggio e infiltrazione con l'appoggio dei servizi segreti degli alleati, quali erano le condizioni a cui si poteva accettare di farlo?
Dilemmi morali tremendi e non dilemmi morali accademici perché chi si trovò ad affrontarli nel farlo doveva mettere in gioco la propria vita ed anche avere a che fare con potenze straniere, come la Gran Bretagna, i cui servizi segreti e diplomatici si battevano sì contro un male assoluto, ma non avevano certo dimenticato gli equilibri di potere del Mediterraneo. Dove Roma risultava da sempre scomoda agli interessi britannici. Molte di queste vicende sono rintracciabili col supporto di una documentazione, estesa e precisa, nel nuovo saggio di Eugenio Di Rienzo: Sotto altra bandiera. Antifascisti italiani al servizio di Churchill (Neri Pozza, pagg. 238, euro 19).
Quella raccontata da Di Rienzo è una storia di divisioni e di scelte dolorose. Partiamo dal versante più intellettuale del dubbio e della frattura. Un grande intellettuale come Benedetto Croce, pensò, fino al 25 luglio 1943, che non si potessero imbracciare le armi contro la Patria neppure quando quella Patria aveva scelto la più funesta delle alleanze. Un altro grande intellettuale, Gaetano Salvemini, reputò che era possibile, anzi doveroso farlo. Però in base a certe precise condizioni. Cioè solo a patto di conservare all'Italia quando fosse uscita dal conflitto - perdente certo, ma proprio per questo più libera e più giusta - la piena sovranità e la sua integrità territoriale. Altri ancora - tra questi: Aldo Garosci, Emilio Lussu, Alberto Tarchiani, Max Salvadori, Leo Valiani - scelsero di militare sotto altra bandiera, senza porre troppe condizioni preliminari o accettando, seppur obtorto collo, di vedersi rifiutare ogni garanzia per il futuro del nostro Paese.
Molti di questi espatriati vennero arruolati, non senza un furbo corteggiamento, nello Special Operations Executive, la punta di lancia dell'intelligence britannica.
Di Rienzo, che è il direttore di Nuova rivista storica, evidenzia bene come ognuno fece un percorso a sé. Ci fu l'alato idealismo di chi, come Lussu, finì per ritenere che la lotta contro il Moloch del nazifascismo, «guerra santa» e non «guerra di Stati e di popoli», ingaggiata per annientare il «male assoluto», abolisse ogni sentimento di appartenenza nazionale. E ci fu chi invece, molto più prosaicamente, ritenne la collaborazione con gli inglesi l'unica possibilità di sopravvivenza personale di certo e forse anche nazionale.
Gli Archivi di Stato di Londra, compulsati con acribia per la realizzazione del volume, a partire dai documenti recentemente desecretati, mostrano in tutta la loro crudezza molti dei doppi e tripli giochi in cui si trovarono coinvolti gli esuli italiani.
In questo senso alcune delle pagine più interessanti del saggio sono quelle dedicate a Max Salvadori (1908-1992) il cui percorso - che lo portò a un ruolo di primo piano nel riorganizzare le attività politiche della N. 1 Special Force (Special Operations Executive) in Italia - è un ottimo esempio di come si potessero sviluppare inganni multipli e tripli giochi. Ovviamente cose molto scomode da ricordare a guerra finita.
Di tutt'altro spessore l'esperienza di un Lussu o anche di un Aldo Garosci, forse il più meditabondo degli uomini legati al Soe, che portarono avanti progetti complessi e anche utopisti che gli uomini di Churchill valutavano con attenzione e cercavano di tenere sotto controllo. A volte anche perché davvero poco realistici: come la speranza di Lussu di un sollevamento sardo. Alla fine a Londra prevalse contro ogni utopismo la Realpolitik di Churchill anche sulla posizione da tenere verso la monarchia, almeno durante il conflitto: «Quando si deve tenere in mano una caffettiera bollente, è meglio non rompere il manico finché non si è sicuri di averne un altro egualmente comodo e pratico, o comunque finché non si abbia a portata di mano uno strofinaccio per afferrarla». La caffettiera Italia fu gestita così. Questo al di là della volontà di chi fu utilizzato come pattina.
Il libro però non emette giudizi, sarebbe assurdo, ripercorre esistenze cercando di coglierne l'umanità, sempre con una certa dose di pietas. Quella che serve per guardare i destini degli uomini gettati in tempi di ferro.
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