La cultura non è lì. In quello stupro del Colosseo voluto con orgoglio dal ministro Franceschini, e rivelato da un fuori onda con il Presidente Draghi.
Franceschini cammina sulla grottesca piattaforma montata dentro il Colosseo, e ne annuncia l'estensione con orgoglio: «Quindi dovremmo forse finire, prima delle elezioni del '23, tutto il completamente dell'arena, con queste contestazioni degli archeologi e invece... tu cosa ne dici?». Draghi risponde con partecipazione: «Ma guarda che... io ho imparato che se uno ascolta troppo gli esperti... non fa niente».
Sembra un paradosso, se consideriamo come Draghi abbia ascoltato con straordinaria fiducia i contraddittori scienziati per governare maldestramente l'epidemia fino all'imposizione del Green pass. Al contrario, sarebbe stato meglio che Franceschini avesse ascoltato gli archeologi, invece di far montare quel ridicolo tavolone ovale dentro il Colosseo, costruito in compensato dipinto di bianco, e con tristi sedie girevoli di plastica e acciaio, da ufficio. A usare così malamente e strumentalmente la romanità non si spinse neanche il Fascismo. I monumenti umiliati a celebrare la gloria dei potenti davanti al mondo. Una prova di forza contro la cultura, una esibizione di vanità, un funerale della bellezza.
L'Italia di Franceschini non è un Paese che ha cultura, ma un paese che la esibisce. Nessuna parola, nessun nobile concetto potevano vincere la contraddizione di quello che gli occhi ci hanno mostrato: una sorta di piscina sovrapposta alle strutture ipogee del Colosseo, tramandate da una ricchissima iconografia pittorica, e ora penosamente coperte, per vacue celebrazioni come questa. Con la nostra lingua, nell'anno di Dante, sul fondo della piscina, sostituita con quella inglese: «Culture unites the world». E Roma che diventa «Rome». Avrei voluto vedere se il rito fosse stato celebrato in Francia, in quale lingua sarebbe stato presentato. E tanto più risibili appaiono le parole di circostanza di Draghi: «È davvero una bellissima idea ritrovarsi seduti qui: guardate che splendida luce». Sembra non accorgersi di dove sta parlando quando dice: «la storia e la bellezza sono parti integranti dell'essere italiani. Quando il mondo ci guarda, vede prima di tutto arte, musica e letteratura». Mentre il piano del suo governo apre la strada alla sistematica devastazione del paesaggio con la incontrollata diffusione di pannelli fotovoltaici e di torri eoliche, dalla Sicilia alla Puglia, alla Toscana, Draghi, senza vergogna, dichiara: «dobbiamo agire subito perché le generazioni di domani possono godere dei tesori che noi ammiriamo oggi».
Chissà cosa vuol dire «cultura», per Draghi e Franceschini, se non vedono ciò che è davanti ai loro, come ai nostri, occhi; se non rispettano e fanno rispettare l'articolo 9 della Costituzione montando questa ridicola parata, mentre 209 progetti sono stati presentati, solo in Sicilia, per installare pale eoliche in un'area di 14592 ettari. E si vantano di aver vietato il passaggio delle grandi navi transeunti nel bacino di San Marco e nel canale della Giudecca per rispondere a una minaccia dell'Unesco! La retorica, senza alcuna traccia di cultura e di coraggio per difendere ciò che si dice, cresce quando Franceschini dichiara: «La pandemia ci ha fatto capire quanto la cultura sia la linfa delle nostre vite. Le piazze vuote, i musei chiusi come i cinema, i teatri, le biblioteche, hanno reso le nostre città tristi, spente. Per questo ora sappiamo che sarà la cultura la chiave della ripartenza, il motore di una crescita innovativa, sostenibile, equilibrata». Motore spento, e ora ingolfato.
Ai colleghi del G20 Franceschini ricorda che «ben prima dell'azione di governo, la cultura parla ai popoli. Le emozioni che le Arti ci regalano hanno il potere di consegnare all'umanità intera il senso di un destino comune». Franceschini sembra aver dimenticato che dipendeva soltanto dal governo tenere aperti teatri e musei, anche semplicemente ricordando la legge (da lui fortemente voluta) emanata il 5 novembre 2015, e denominata per l'appunto «decreto Colosseo», che stabilisce che musei e luoghi della cultura sono «servizi pubblici essenziali», come sanità e trasporti. Eppure ospedali e mezzi di trasporto sono i luoghi dove più si diffonde il virus, e nessuno ha pensato di chiuderli, come è stato fatto invece con i musei. In Spagna, dove la pandemia non era più mite, musei e teatri sono stati sempre aperti. Sarebbe bastato, allora, un po' di buon senso perché le parole di Franceschini di oggi non sembrassero una beffa e una presa in giro.
In questa fiera delle vanità, in cui soltanto la bella direttrice dell'Unesco, Audrey Azoulay, ha avuto la sensibilità di citare Roberto Calasso, il grande editore appena scomparso, non c'è spazio per ospitare esponenti della cultura italiana al più alto livello, come i filosofi Giorgio Agamben e Massimo Cacciari che hanno scritto in questi giorni un importante manifesto, evidentemente ignorato dal governo, ma straordinariamente eloquente. Cultura è soprattutto democrazia, libertà, non vana propaganda. Cultura è resistenza, difesa della ragione, ricerca delle verità profonde. Cultura è il sacrificio di Giordano Bruno, la determinazione di Galileo, il disagio di Leopardi, la testimonianza di Michelstaedter. Come ignorare, se non nel disprezzo delle posizioni divergenti e in nome di una dittatura sanitaria, ciò che ha scritto, in coincidenza con la retorica apertura del G20, Giorgio Agamben? «Com'è possibile che non ci si renda conto che un paese che è ormai da quasi due anni in stato di eccezione e in cui decisioni che comprimono gravemente le libertà individuali vengono prese per decreto (è significativo che i media parlino addirittura di decreto di Draghi, come se emanasse da un singolo uomo) non è più di fatto una democrazia? Com'è possibile che la concentrazione esclusiva sui contagi e sulla salute impedisca di percepire la Grande Trasformazione che si sta compiendo nella sfera politica, nella quale, come è avvenuto col fascismo, un cambiamento radicale può prodursi di fatto senza bisogno di alterare il testo della Costituzione? E non dovrebbe dare da pensare il fatto che ai provvedimenti eccezionali e alle misure di volta in volta introdotte non viene assegnata una scadenza definitiva, ma che essi vengono incessantemente rinnovati, quasi a confermare che, come i governi non si stancano di ripetere, nulla sarà più come prima e che certe libertà e certe strutture basilari della vita sociale a cui eravamo abituati sono annullate sine die?».
Al trionfalismo di Franceschini si contrappone il dubbio di Agamben. Di quale cultura possiamo parlare quando i dissidenti sono costretti a tacere, ignorati? Un incontro internazionale come questo si poteva fare anche nel 1926, in pieno Fascismo, quando Antonio Gramsci era costretto a scrivere, nella solitudine del carcere, alla madre: «Non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione (...) vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini».
Non si può parlare di cultura quando c'è spazio solo per le voci del consenso. Che sia stata solo una parata retorica lo mostra eloquentemente l'articolo di Paolo Vineis pubblicato su La Stampa, che ci pone davanti a uno scenario spaventoso, a fianco della cronaca sulla edizione del G20 al Colosseo. Così inizia,come un monito: «Il paesaggio in Italia è un valore tutelato dalla costituzione (art.9), e sorprende sentire da molti ambientalisti che eolico e solare sono belli e migliorano il paesaggio, risolvendo così la questione di possibili impatti tutt'altro che insignificanti». Draghi e Franceschini non possono ignorarlo.
Ecco: iniziamo a discutere da qua.
Altrimenti come potremo seriamente, dal palcoscenico del Colosseo, affermare: «La storia e la bellezza sono parti integranti dell'essere italiani»? Di quale integrità si parla? Cominciamo a chiederci, con il paesaggio, a cosa abbiamo rinunciato.
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