Quei manichini difettosi animati dall’odio per la vita

Dieci racconti di grande incisività narrativa che si risolvono in catastrofe

Incrociare le figure irredente e irredimibili che vivono nei racconti di Silvana Grasso è un po’ come mettere i piedi in uno stagno: se all’inizio si percepisce solo il gelo dell’acqua e lo schifo vegetale, si immaginerà poi con preoccupazione la miriade di batteri che lo popola finché l’apparizione di rane, insetti carnivori, piccole bisce non spinga a tirare i piedi in secco. Ugualmente i bestioni, i cariati pusillanimi o i vampiri della Grasso dichiarano la loro virulenza con le pustole del volto, le alopecie mucose o le croste sulle braccia. Presto la virulenza diventerà assalto meccanico, greve, diretto.
Quando dispone di una storia abbastanza forte da sostenere la parabola che va dalla tara, dal guasto alla catastrofe, la pagina di Silvana Grasso splende di un’incisività narrativa e di una densità retorica che nel panorama attuale della narrativa italiana ha pochi rivali; tale per esempio da ridurre un Camilleri a quantité négligéable. Alcuni di questi dieci racconti esasperati e perversi sono perfetti. Il primo, Manitta, è da antologia. Manitta è nata priva di una mano. Lungi dall’abbatterla, l’handicap la libera; una liberazione in vista del male. Appena raggiunge l’età della ragione circuisce un uomo di mezza età, che ha il pregio di possedere un negozio di sartoria sul Corso, e lo sposa. Una volta impossessatasi dell’esercizio la mano di ferro, ricoperta da un guanto di pelle nero, si trasforma in un’arma con cui colpire alla schiena le apprendiste pigre («Erano colpi violentissimi, da levare il respiro, e per settimane restavano i lividi, colore del sanguinaccio, sull’organzino tenero della pelle»); in uno strumento con cui inchiodare i fogli dei modelli da sarta; in un simbolo di efferatezza da svitare la sera per riporlo sul comò. Spetterà al bambino nato dal matrimonio far sì che quanto è stato rubato alla sorte le sia restituito. Sarà dalla madre ridotto a tronco, a moncone d’uomo: nel cosmo morale della Grasso ciò che è estorto al destino deve essergli restituito aggredendo un parente o un congiunto, con un ritmo diagonale.
È bene sospettare del titolo da musical della raccolta einaudiana: una luna pazza è un marasma fatto di commedia e delirio entusiastico, sicché come insegna luminosa, a dispetto delle sue mille candele, è sviante.

Peggio ancora, evoca il polo deteriore di un’autrice che all’altro capo di sé sfodera una scrittura che raddoppia la ferocia, già smisurata, dei suoi personaggi: manichini semoventi armati di serramanico, gonfi di un intrinseco risentimento che smania per essere trasformato in azione. Con l’omicidio, o più spesso attraverso una spietata nullificazione delle ambizioni altrui.

Silvana Grasso, Pazza è la luna (Einaudi, pagg. 213, euro 17,50).

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