Quella profezia che voleva chiudere la Guerra Fredda

Nell’87 a Reykjavik il presidente Reagan disse a Gorbaciov: «Fra dieci anni ci ritroveremo in un mondo che non avrà più missili nucleari»

Mese più mese meno, son passati vent’anni dal giorno in cui un presidente americano coraggioso e immaginifico espresse una profezia. Ronald Reagan aveva passato alcuni giorni a discutere di progetti di disarmo nucleare con Mikhail Gorbaciov in un luogo anche geograficamente suggestivo per un «vertice», a Reykjavik. Si erano scambiate proposte, non si erano messi d’accordo. Allora Reagan «descrisse» un incontro del futuro: un appuntamento dieci anni dopo. Sarebbero tornati in Islanda e ciascuno avrebbe portato l’ultimo missile nucleare del proprio Paese. Reagan sarebbe stato allora molto vecchio e Gorbaciov non lo avrebbe riconosciuto, ma lui gli avrebbe detto: «Salve, Mikhail». «Ron! Sei proprio tu?». E poi avrebbero distrutto l’ultimo missile.
Un aneddoto dimenticato dai più, che può tornare attuale nei giorni in cui fra Mosca e Washington si riparla di missili. Putin annuncia che la Russia ne possiede oggi di un tipo «capace di bucare qualsiasi difesa», di un modello «che nessun altro al mondo possiede né possiederà per lungo tempo»: dove «nessuno» significa Stati Uniti e il «buco» è quello nel sistema di difesa antimissilistico che Bush sta cercando di costruire. Riprendono il volo bombardieri «strategici» russi dopo quindici anni di naftalina. Putin rivendica il Polo nord. Bush annuncia che lo spazio intero, fino ai confini di un universo che continua a dilatarsi sulla spinta del big bang fa parte dello «spazio vitale americano». E Putin, dopo anni di abbandono, sta di nuovo accrescendo la potenza militare russa, concentrando la spesa (che non può più essere senza fondo, come ai tempi dell’Urss) in certe nicchie strategiche. Il bilancio delle forze aeree russe aumenta grazie ai maggiori introiti petroliferi e sarà usato per rimodernare soprattutto gli aerei a largo raggio.
A Washington si moltiplicano le accuse a Putin di neo-imperialismo. Mosca denuncia l’ambizione dell’America, che manifesta nelle teorizzazioni dei neoconservatori di estendere nello spazio e nel tempo, fino a renderlo permanente, il ruolo attuale di Superpotenza unica che discende dalla fine della Guerra Fredda. Gli strateghi del Kgb, risorto sotto nuove spoglie e più potente che mai, denunciano una strategia volta a isolare la Russia, a privarla del petrolio e dell’accesso al Mar Nero, a spingerla fuori dall’Asia centrale, dal Caucaso e dal Caspio. Ai Paesi baltici, alla Georgia, domani all’Ucraina, potrebbe spettare, su mandato Usa, una specie di diritto di veto o di interferenza per il fatto di ospitare i gasdotti che collegano e integrano la Russia all’Europa Occidentale.
Putin non si fida e dunque avanti con il gasdotto sottomarino che taglia fuori gli ex «satelliti» e sbocca direttamente in Germania: il piano studiato assieme a Schröder, l’ex cancelliere che oggi lavora per la Gazprom.
La Russia reagisce mettendo in questione la legittimità delle «rivoluzioni democratiche» in Paesi come l’Ucraina o la Georgia, che intende riportare nella propria sfera di influenza, e intanto vende armamenti strategici ai potenziali avversari di Washington, a cominciare da Pechino: bombardieri capaci di portare missili da crociera a lungo raggio che aumenterebbero notevolmente la portata dell’azione nucleare cinese. Parla di autodifesa, di «rompere un assedio». Mosca cerca di promuovere una mega-coalizione planetaria, economico-militare, chiamata BRIC dai nomi dei soci auspicanti: Brasile-Russia-India-Cina. Una «santa alleanza» contro la Superpotenza che coinvolgerebbe i tre quarti della popolazione del pianeta, la maggior parte delle risorse naturali e un gigantesco «bacino» di talenti tecnico-scientifici.
L’America se ne avvede e reagisce a sua volta sponsorizzando il riarmo nucleare dell’India, riattizzando antiche rivalità fra Nuova Delhi e Pechino (già sfociate in guerre guerreggiate). E con qualche successo, anche se i due giganti asiatici studiano contemporaneamente i tempi e i modi di una collaborazione alternativa.
Fra Washington e Mosca, insomma, si parla di tutto, tranne che di smantellare gli arsenali nucleari. Fra i vaticini di Reagan quello formulato a Reykjavik nel 1986 non si è realizzato e pare anzi allontanarsi. È esagerato, prematuro parlare di un ritorno alla Guerra Fredda, ma certi toni, certe parole, certi gesti riportano addietro nel tempo, a quella che il destinatario diretto di quella profezia, Gorbaciov, chiama «la notte nera». E, tagliato fuori da quasi vent’anni dal gioco dei potenti, veterano fra tutti i potenti del passato, globetrotter rispettato e un po’ eccentrico, portatore di variegati messaggi, non si stanca di rammentare quanto è prezioso il dono della fine della Guerra Fredda e di distribuire le critiche a chi potrebbe sciupare questa eredità e magari avviare una nuova spirale di ostilità: gli «oltranzisti delle due parti, i responsabili dell’involuzione in corso in Russia, gli ebbri di potere in America che guardano alla Russia come all’Angelo del Male caduto dall’Empireo delle superpotenze».
Quale fu, allora, la parentesi: cinquant’anni di ostilità o vent’anni di convivenza a tratti cordiale? Forse un tempo ancora più stretto: quello trascorso fra il giorno in cui una mano si posò su una spalla e quello in cui una mano si posò su una bara. Sono altre due immagini del singolare paradossale sodalizio fra Mikhail Gorbaciov e Ronald Reagan. La prima è quella del loro primo incontro, a Ginevra, nel 1985, con il presidente americano che, invece di stringere la mano allo sconosciuto interlocutore, gli posa un braccio sulla spalla, cordiale ma anche paterno e paternalista, a cancellare visivamente lo stereotipo di una parità fra le due «superpotenze». La seconda è di quasi vent’anni dopo, al funerale di Reagan in California, e Gorbaciov in piedi davanti alla bara, che vi posa un attimo sopra la mano come in un saluto da amico, nel volto qualcosa che potrebbe anche essere commozione o almeno emozione sincera.


Era forse soltanto l’addio sempre nostalgico di un uomo alla sua epoca; oppure il russo, statista e uomo sconfitto, intuiva in quel momento che avrebbe potuto paradossalmente far sue le parole che l’americano - che aveva vinto l’ultima battaglia di una drôle de guerre che chiamavamo Guerra Fredda - aveva pronunciato nel momento di lasciare invitto il potere: «Volevamo cambiare l’America e abbiamo cambiato il mondo». E adesso si accorge, il sopravvissuto, che il mondo invece è cambiato solo in parte, per un po’.

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