Un noto banchiere milanese, che ben conosce la storia di Carlo De Benedetti e le cose della finanza, qualche giorno fa, confidandosi in privato, si è espresso senza metafore sulla scalata in Borsa alla società Management & Capitali (M&C): «Per dimensioni siamo di fronte più a una lotteria paesana che a un gruppo per il quale valga la pena di scannarsi. Ma l’Ingegnere vuole dimostrare che quella è roba sua, e che nessuno può osare di portargliela via». Concetto chiaro e limpido, che merita comunque un paio di precisazioni: la battaglia in questione riguarda il lancio di un’offerta pubblica di acquisto sulle azioni di M&C, a cui sono seguite due contro-offerte da due soggetti diversi, oltre a due rilanci sui prezzi delle azioni. Mentre De Benedetti comprava a mani basse, portandosi dal 16 al 23%. Non si era mai vista una guerra così nella piccola Borsa italiana, dove di offerte pubbliche si sente per lo più solo parlare. E il tutto a fronte di un oggetto del contendere - la società M&C - che vale «solo» 78 milioni. «Solo» perché i valori delle grandi cose, in Piazza Affari, sono altri. Per dire, una banca media come la Popolare di Milano di milioni ne capitalizza 2mila. Un’appetitosa società industriale come Piaggio ne vale 600. Lo stesso Ingegnere lo sa bene, visto che la holding del suo gruppo finanziario ed editoriale, la Cir, una cifra come l’intero valore di M&C la macina ogni anno solo di utile. E allora? Avrà anche ragione il sagace banchiere di cui sopra, ma ci dev’essere anche dell’altro.
Che M&C sia da sempre stata considerata da De Benedetti «roba sua» è più che un’impressione. Non a caso il gruppo è nato da una costola di una società che si chiamava Cdb Web tech: le iniziali dell’Ingegnere per un’iniziativa da new economy, che ha lasciato il tempo che aveva trovato. M&C è stata «scorporata» da Cdb nel 2006 e quotata in Borsa. De Benedetti non ne aveva il controllo, ma nel comunicato stampa societario del 3 febbraio 2006 si legge di «iniziativa ideata dall’Ing. De Benedetti di un’attività di investimento "turnaround" (sic) finalizzata al rilancio di aziende italiane in crisi finanziaria e/o industriale... ». E sempre non a caso l’amministratore delegato di M&C si chiama Corrado Ariaudo, che non risulta arrivare da una dura selezione tra cacciatori di teste. Ariaudo lavorava all’Olivetti: ci è stato per 17 anni, dall’85 fino alla fine, nel ’99, nel periodo in cui l’azienda di Ivrea era governata da De Benedetti; di cui Ariaudo era manager fidato al punto da scalare di posizione in posizione fino alla direzione generale del gruppo. Si legge tutto nel suo curriculum, nel sito di M&C. Tutto tranne una condanna in appello a due anni e due mesi, arrivata nel 2008 (dopo l’assoluzione in primo grado), per il reato di bancarotta per distrazione, in relazione all’acquisto, da parte della Op Computers nel 1997, del ramo d’azienda di Olivetti personal computer. Una grana che ancora è in sospeso, anche se per la sentenza definitiva della Cassazione i tempi sarebbero maturi al punto da essere attesa a breve. Potrebbe arrivare, dunque, nel pieno della bagarre per la conquista di M&C.
Detto dunque che Ariaudo è al momento in attesa di giudizio, resta da valutare l’opportunità di affidargli un fondo salvaimprese, quale è M&C. Ma tant’è. Forse un manager fidato fino a questo punto ha contribuito a informare l’Ingegnere sulle attività del gruppo (che ha altri 5mila soci minori). O forse no. Ma qualcosa De Benedetti deve sapere sul reale valore di M&C, o su altro. Se no perché ha comprato azioni su azioni prima a un prezzo di 14 cent quando il titolo valeva 10-11? E poi altri acquisiti a 15, altri ancora a 19, mentre le offerte pubbliche fioccavano dagli iniziali 8, fino ai 14 centesimi. Strano anche che a un certo momento sia saltato fuori un pacchetto del 5% messo insieme da tale Alessio Nati, finanziere che ha sposato la figlia di primo letto dell’attuale moglie di De Benedetti, Silvia Monti. Qualche giorno fa, sul caso, è intervenuta la Consob, per chiedere spiegazioni.
Cosa c’è dentro a M&C di così prezioso? Di certo 50 milioni di cassa. E tanto valeva il gruppo prima che iniziasse la battaglia tra i vari aspiranti: la famiglia torinese Segre (storicamente vicina all’Ingegnere, che ha lanciato la prima Opa); il finanziere Giovanni Tamburi, socio che ha successivamente litigato con De Benedetti mettendosi di traverso; e l’outsider Gianpiero Samorì. Poi, da quando De Benedetti è sceso in campo, il valore è arrivato vicino a quota 80 milioni.
Tra le partecipazioni del fondo c’è poco o niente (i grandi «turnaround» annunciati non si sono visti), a parte il 68% della Comital (alluminio Cuky e Domopack), rilevato due anni fa senza grossi risultati. Il mistero continua.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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