IL RACCONTO - L'amore è una catena

«Tutto quanto ho scritto fino a oggi è pura facciata: quel che riguarda me comincia sempre con i trattini di sospensione». Lo dice Nietzsche in una lettera del 1888 alla sorella Elizabeth. Nel nostro piccolo proviamo a imitarlo, mettendo i puntini al posto dei trattini...

... fa un certo effetto. Purché, naturalmente, sia innamorato di un'altra donna, e purché questo essere innamorato venga, almeno apparentemente, ricambiato. Non avete mai visto, in treno o sul tram, al bar o per strada, come certe donne osservano gli uomini innamorati? Non avete mai visto, negli occhi di quelle donne, un sorriso sarcastico, come l'attesa di un fallimento? Io le ho viste, quelle donne. Nei corridoi del liceo erano professoresse vicine alla pensione, e la sera al mare erano gelataie simpatiche, e nelle notti di tanti capodanni falliti erano madri falsamente premurose. E le ho viste la mattina, in un paese di montagna, fare la spesa con un occhio al banco del salumiere e l'altro alla mia camicia stropicciata. Guardano un po' te e un po' quella che sta con te. Generalmente non sono belle, ma ce ne sono anche di belle. E in quel caso tu non puoi far finta di niente. Tu fai la ruota. E pensi «vede, signora, vede che... insomma, qui c'è un ometto che si dà da fare, anzi, che si è già dato da fare... lo tenga presente, se per caso un giorno...». Del resto, hai vent'anni, puoi pensare di tutto. No, per essere precisi questo lo penserai dopo, un mese dopo, forse due, tre. Lo penserai quando ti tornerà in mente come spingevi beato il carrello al supermercato, con una già quasi estranea che ti si stringeva al braccio, o a come ti sentivi leggero, con quelle valigione piene di roba inutile, salendo le scale di una modestissima pensioncina...

... le scale di una modestissima pensioncina. Sui muri sporchi, qualche triste cuore d'amore e qualche bestemmia. Salendo all'ultimo piano, l'uomo barcolla, fradicio di vino velenoso. Apre la porta della stanza, si toglie la giacca, la butta sul letto. Siede sul letto, si toglie le scarpe, un rutto gli scuote il petto, la testa gli gira, la vista s'annebbia. E l'uomo s'addormenta e non sogna. È il sonno cattivo dei falliti, il sonno solitario e inutile. Il mattino giunge insolente cavalcando i rumori della strada. L'uomo si sveglia, nella testa le bolle alcoliche vanno ancora su e giù. L'uomo si alza, circospetto: non si fida delle gambe. Raggiunge il lavandino, apre al massimo il rubinetto e mette la testa sotto l'acqua gelata. L'acqua gelata fa miracoli, penetra fin dentro il cervello, lava i pensieri, li azzera e dà sollievo. La barba. Farsi la barba non è da fallito, bisogna farsi la barba per sperare che qualcuno ti dia quel poco di credito che resta nelle tasche della gente sospettosa. Quindi l'uomo si rade. E quando ha finito, una bella sciacquata. Si guarda allo specchio. Un buon lavoro, una cosa fatta bene, finalmente. L'asciugamano è pulito e profumato. Di nuovo uno sguardo allo specchio. Ma di fianco allo specchio, che cos'è quel ghirigoro blu? La faccia dell'uomo esce dallo specchio e si avvicina al ghirigoro. C'è scritto: «Marina e Gianni, per sempre». Marina, come la sua ex moglie, impiegata in un ufficio lì vicino. Gianni, come il compagno di lavoro dell'uomo, alla ditta di traslochi (uscirono insieme a mangiare la pizza, tutti e tre, sarà stato un anno fa). Nel breve tragitto dalla finestra della camera al marciapiede l'uomo stringe forte al petto l'asciugamano che sa di buono...

... che sa di buono. L'aria è frizzante e l'odore di muschio umido, qui, nel bosco, sommato al sapore del latte che abbiamo ancora in bocca, è meglio della prima sigaretta, in città, dopo il primo caffè della giornata. Siamo venuti quassù perché eravamo stanchi della compagnia, giù, al paese. Dieci minuti di macchina e poi, finito l'asfalto, una camminata di mezz'ora in assoluto silenzio. Ci sediamo su un bel roccione che sembra messo lì apposta. La piacevole sensazione di fresco che parte dalle chiappe e si diffonde in tutto il corpo ci ritempra dalla fatica. Adesso sì che ce la possiamo fare, una sigaretta. E finalmente Massimo dice qualcosa. «Partirò fra dieci, quindici giorni». «A casa che dicono?». «Come al solito: mia madre frigna e mio padre se ne frega». «Quindi tutto bene». «Diciamo tutto bene». Massimo andrà in Argentina per lavoro. Ci andrà per lo stesso motivo per cui siamo venuti qui questa mattina: perché non sta bene in nessun posto. Anch'io non sto bene in nessun posto, ma in un modo diverso. Per esempio, il fatto di essere qui nel bosco mi pone il problema di dove buttare il mozzicone. Fra i milioni di cose che mi danno fastidio ci sono i mozziconi buttati a terra, figurarsi poi in un bosco. Così spingo il poco tabacco rimasto, stropicciando il mozzicone appena sotto il filtro, sul morbido tappeto di aghi di pino. Poi ci piscio sopra. E poi metto il filtro con la carta vuota nel pacchetto delle sigarette. Massimo ride e butta la sua cicca sulla mia pisciata. Il silenzio è tale che possiamo sentire lo sfrigolio della sigaretta morente. «Avevo una specie di fidanzata argentina, anni fa. Era venuta a studiare a Milano», dico. Massimo fa un cenno con la testa che vuol dire «torniamo in paese». Ci avviamo. Non abbiamo fatto dieci metri che Massimo torna indietro, raccoglie la sua cicca da terra e me la dà. «Mettila nel pacchetto». Per chi non l'avesse capito, Massimo è il mio migliore amico. Lo è dal giorno in cui...

... dal giorno in cui aveva finito il liceo. Si sentiva come uno appena uscito di galera. Diciamo la verità, una laurea è sempre una laurea. Aveva preso 108. Il che significava, gli aveva spiegato Cristina, la dolce e bruttina Cristina che fa anche rimina, otto punti di tesi. Un record per quella commissione, notoriamente scorbutica e sospettosa. Infatti lo avevano riempito di domande. Si capiva che cercavano d'incastrarlo, ma lui aveva resistito. E alla fine sulle loro facce grigie erano persino spuntati dei sorrisi. Però niente a che vedere con il sorriso di Cristina. Era proprio in estasi, così doveva essere il volto delle mistiche medievali nei loro momenti migliori. «Otto punti dici? Be' io questi conti non li so fare...». «Sei sempre il solito. Ti sottovaluti, dovresti avere più autostima, perché se uno continua...». «Cri, basta. Se hai detto otto punti saranno otto punti». «Peccato per quel 27 in Filosofia antica e per quei due 25 in Teoretica e Storia contemporanea. C'era un 110 con lode lì che ti aspettava». «Aspetterà per sempre». «Allora te lo do io il bacio accademico». Gli salta al collo e gli dà il bacio. Lui lo temeva, un bacio, fin dal momento in cui era uscito dall'aula. Però, porca puttana, non con quella lingua mistica a lavorargli il cavo orale davanti a tutte quelle matricole. Perché c'è un assembramento di matricole, quasi tutte femmine. E quasi tutte carine. Cristina, mollata la presa, fa una cosa assurda, per una santaritadacascia come lei. Si guarda intorno fissando per qualche secondo le fighette. Vuole assicurarsi che abbiano visto la scena e poi..., non ci crederete, schiocca la lingua, come fanno i bambini e i vecchi quando hanno finito il gelato. Segue un coro di risate delle fighette. Lui si sente una merda e, per l'appunto, farebbe volentieri cambio con l'inserviente lì vicino che si avviava a pulire i cessi fischiettando...

... i cessi fischiettando alla stazione della Spezia. Francesca mastica furiosamente la gomma. È stanca di aspettare. La zia le aveva detto: «prendo quello delle sette, mettiti vicino all'edicola». Però vicino all'edicola ci sono due con delle brutte facce: militari in libera uscita, o poliziotti in borghese, o spacciatori. Si fanno le sette e mezza, la folla che torna dalle spiagge si esaurisce e Francesca continua a masticare. E la zia continua a non arrivare. Il solito ritardo. Che con ritardo viene annunciato: «Il treno interregionale numero tal dei tali da Milano viaggia con sessanta minuti circa di ritardo per un guasto alla stazione di Levanto». Che si fa? Le chiavi di casa le ha la zia. Che però, santo cielo (Francesca dice, e pensa, «santo cielo» quando s'arrabbia, non le parolacce che dicono le sue amiche), potrebbe comprarselo, il telefonino! Francesca non può far altro che aspettare ancora. C'è una panchina libera, un po' sporca ma libera. Francesca prende dalla sua borsettina di bambola un fazzolettino di carta e lo stende sulla panchina, si siede e tenta di ricominciare a leggere il giallo Mondadori. «Scusa, non è che c'hai qualche spicciolo?». Lei lo guarda. È un bel ragazzo, non il solito tipo di barbone puzzolente che bazzica le stazioni. Francesca riprende la sua borsettina di bambola e gli dà un paio di monete. «Quante volte ti ho detto di non dar niente a nessuno! Sei la solita stupida. E tu vattene e lascia stare mia nipote!». La zia, la cara zia. Francesca si alza di scatto e diventa tutta rossa. «E adesso muoviti, ché a casa facciamo i conti. Ti avevo detto di stare vicino all'edicola. È un quarto d'ora che ti cerco. Ma la signorina deve fare la cretina con gli estranei...». «Scusa zia, ma io...». «Basta Francesca, non peggiorare la situazione, andiamo, sono stanca di farti da balia». Passano davanti all'edicola e le due brutte facce sono ancora lì. Francesca si sente i loro occhi sulle gambe, sul seno, dappertutto.

Uno dice, a voce alta: «Bobo, non gliela faresti la balia a quella stronzetta?, io sì e anche dell'altro». Francesca si tappa le orecchie. Da lontano il ragazzo che chiede monete osserva impietrito. Dalla mano gli cadono due pezzi da cinquanta centesimi. Visto così, fa un certo effetto...

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