Dalla primavera del 2019, è un italiano a guidare la Berlinale, il terzo festival del cinema più importante al mondo. Si chiama Carlo Chatrian, è nato nel 1971, ed è valdostano fin dal cognome che - appunto - si rifà a una piccola località al cospetto del Cervino. Infanzia e adolescenza ad Aosta, studi fra Torino e Parigi, Chatrian è arrivato in alta quota con gradualità, senza passi falsi e velleità, semmai con un'andatura solida e costante che ha fatto breccia nei cuori tedeschi. E nello specifico in quello del ministro della Cultura che ha scelto lui fra i candidati alla direzione di un'istituzione alla quale la Germania è particolarmente affezionata
In Italia, si arriccia un po' il naso quando è uno straniero a dirigere un ente culturale. Si teme forse di perdere le proprie radici. Berlino come l'ha accolta? La stanno ancora studiando?
«Ho iniziato il mio lavoro nel giugno del 2019, ma la nomina risaliva a un anno prima, penso dunque che ormai la notizia sia stata metabolizzata. Comunque non ho mai trovato alcuna ostilità, anzi tutti sono stati molto cordiali da subito. Stando ai commenti della stampa nazionale e internazionale mi sembra che la prima edizione del festival sia stata accolta bene. Poi va messo in conto un po' di tempo per adattarsi all'altra novità: la doppia direzione, nel senso che io mi occupo della parte artistica e Mariette Rissenbeek di quella esecutiva. E questo, dopo la lunga presenza di Dieter Kosslick, che con la sua personalità ha dato un'impronta molto importante alla manifestazione».
I colloqui con i candidati vennero condotti in persona dal ministro della Cultura, Monika Grütters. Che cosa le chiese?
«Non fu certo un interrogatorio, tanto che non arrivai neppure con un progetto. Tra l'altro pensavo che il primo colloquio fosse solo esplorativo. Raccontai la mia esperienza, che cosa stavo facendo a Locarno, come intendevo i festival, come avevo visto la Berlinale prima nei panni di critico e poi di organizzatore di festival. Non trattandosi di un tecnico, mi hanno spiegato che il ministro ha tenuto in particolare considerazione la passione e l'energia nel coinvolgere l'interlocutore. Quanto ai contenuti, ha di sicuro influito il lavoro fatto a Locarno, evidentemente apprezzato anche in Germania».
Chiedo a lei che è stato critico, che cosa è oggi la critica cinematografica e quanto influisce sulla fortuna di un film?
«Il ruolo della critica è molto cambiato, di pari passo con l'evoluzione della comunicazione. Oggi, la brevità e la tempestività hanno la meglio sull'approfondimento e l'elaborazione di un pensiero. Da un lato questo porta alla condivisione, in maniera più o meno democratica, di più contenuti; dall'altro mi pare si corra il rischio di un'omologazione di contenuti e una maggiore radicalizzazione delle posizioni. Il responso dei trade paper (le riviste specializzate) ha ancora un peso nel successo commerciale di un film. Ma oggi - di fatto - si raggiunge l'obiettivo anche con il solo far parlare di una pellicola, nel bene o nel male».
Il passato giornalistico che cosa le ha lasciato in dote, di utile per guidare un festival?
«Da ragazzo volevo fare il giornalista e così mi iscrissi alla facoltà di Lettere di Torino, frequentando dei corsi esterni di giornalismo. Iniziai a scrivere per piccoli giornali e lì capii che non era la professione che faceva per me. Lo spazio riservato alla cultura era limitato e il contesto lavorativo non ideale. All'università i corsi di critica cinematografica erano molto seguiti e il cinema era una mia passione. Devo dire però che, se l'università, mi ha dato basi teoriche, è con la frequentazione dei festival (a Torino, Pesaro, Bergamo) che il cinema è entrato con prepotenza nella mia vita, personale e professionale. Allo stesso tempo scrivere, allora come oggi, per me è un'esigenza. Serve a capire non tanto o non solo che cosa racconta il film, ma a capire come mi posiziono rispetto a quello che ho visto, che cosa mi evoca, dove mi porta. Nascono così degli appunti che tengo per me, ma talvolta nascono anche dei messaggi che faccio avere a produttori e registi».
Sul sito della Berlinale, e prima ancora era lo stesso per Locarno, lei cura un blog. Fra gli articoli più recenti un suo ritratto di Monica Vitti. È forse l'attrice del cuore?
«Non ho un attore del cuore. È un po' come con le canzoni che t'accompagnano per un periodo, e poi ne subentrano altre. Non sono esperto della traiettoria cinematografica e della carriera di Monica Vitti, in parte per questioni generazionali. Tuttavia dai film visti, mi è rimasta dentro come volto, corpo e voce piena, così mi è venuta la tentazione di raccontarla. Ci sono attori che mi affascinano per la loro tecnica, altri che ammiro perché sanno sorprendermi in generi che non frequento regolarmente».
Qualche esempio?
«Jim Carrey. Non è certo un classico volto per film da festival. Però è uno dei pochi in grado di prendermi sempre in controtempo, obbligando a ripensare i miei gusti.
Prima di dirigere il Festival di Locarno e quindi di Berlino, ha lavorato in contesti più piccoli, da Courmayeur ad Alba, passando per Milano e Firenze. Da queste esperienze che cosa ha tratto? Ci sono aspetti trasferibili a realtà internazionali come la Berlinale?
«Non ho mai progettato un percorso internazionale, arrivare a Locarno e poi Berlino è stato un caso, pur fortunato. Courmayeur aveva un'organizzazione definita ed io entravo con un ruolo specifico e circoscritto, il festival di Alba venne creato da zero e per questo fu un'esperienza totalizzante. Ho vissuto esperienze molto diverse che hanno contribuito a darmi flessibilità, convincendomi che si possono fare cose interessanti sia lavorando per una settimana sia per un anno intero, e ancora, in un territorio che mastica poco cinema come Alba e in una metropoli ricca di eventi come Milano».
Alla Berlinale ha fatto debuttare «Encounters», la sezione di opere audaci di cineasti indipendenti e innovativi. La riproporrà?
«Encounters è andata al di là delle aspettative: uno progetta, programma e disegna una mappa, ma sono poi i film che devono dare colori e forme. Il programma era molto forte, comprendeva film diversi fra loro ma che insieme hanno dato, secondo me, l'idea di dove sta andando il cinema. Rispetto al concorso, dove i valori cinematografici sono garantiti in partenza dal nome del regista, cast e tema del film, Encounters gode di maggiore libertà».
E così è possibile lanciare un film come «Gunda», pellicola che ha una scrofa per protagonista. Come si legge il fatto che l'abbia comprato un distributore di punta come NEON (nel portfolio ha Parasite, la pellicola coreana che ha vinto il Premio Oscar)?
«Per la verità, negli ultimi anni, in America il documentario ha acquisito importanti fette di mercato e ha un peso importante negli Academy Awards. E ora, appunto, l'obiettivo è portare Gunda agli Oscar».
A proposito. Con Alberto Barbera (al timone del Festival di Venezia) è stato chiamato tra i New Academy Members Award. Da Los Angeles che segnale vogliono dare con questa scelta?
«Lo interpreto come un riconoscimento del lavoro fatto dai festival. Aggiungiamo che può rappresentare un'apertura a punti di vista diversi rispetto a quelli dell'industria americana».
Come sarà la Berlinale 2021?
«Sarà un'edizione che richiederà di essere ancor più flessibili del solito: anche nel rispondere alle esigenze che potrebbero emergere da qui a febbraio. Come sempre il Festival si svolgerà nelle sale cinematografiche perché, se i viaggi saranno limitati, a Berlino il pubblico esiste e segue il festival. S'aggiunga che soprattutto in questa fase, in cui le sale stanno soffrendo, da parte nostra è importante dare un segnale. Il numero di film che faremo vedere dipenderà molto dalla quantità di persone ammesse in sala, se sarà ridotto è probabile che sposeremo la strategia di Venezia 77 scegliendo meno film e facendoli vedere più volte così, da permettere a tutto il pubblico di seguirli».
Con il 2021 l'Orso andrà alla migliore interpretazione e non più al «miglior attore» e alla «migliore attrice». Perché conta il talento a prescindere dal sesso: è questo il messaggio?
«La ragione è artistica. Il lavoro di un attore è frutto di un mix fra abilità innata e lavoro. La cosa vale per uomini e donne. Da un punto di vista artistico non ci sono ragioni che ci fanno distinguere fra uomo e donna, semmai fra gruppi di attori che hanno tecniche diverse, per via delle scuole di provenienza, della frequentazione di certi registi e per le esperienze vissute. Ci sono invece differenze nel lavoro che un attore deve fare quando recita un ruolo non protagonista, e riesce in poche scene a segnare il film. C'è poi l'idea di andare verso una equiparazione dei generi sessuali. Sappiamo che il numero di ruoli scritti per uomini è maggiore, ma crediamo che sia la qualità e non la quantità a prevalere».
A 125 anni dalla nascita, cosa continua a essere il cinema, e che cosa non è più?
«La parola cinema mi riporta a un luogo di esperienza collettiva. Si è passati dai caffè-teatro alle multisale, ma da sempre il modo in cui si recepisce un film risente della sala, delle persone sedute più o meno vicine, del modo in cui ridono, gridano o commentano. C'è una comunità dove il mio piacere si interfaccia con quello degli altri e così pure il mio fastidio fa i conti con quello degli altri. Il cinema è una esperienza culturale e sociale».
Come riportarla al centro dell'esperienza collettiva?
«È questa la sfida, e i festival assolvono anche a questo compito, visto che sono un luogo di incontro sociale e di condivisione».
E il rapporto con l'immagine come è cambiato?
«Per la mia generazione, che pure è nata con la televisione in casa, le immagini erano separate dalla realtà. Avevo diritto a guardare la tv in un determinato momento della giornata; per fare una foto o un video avevo bisogno di un apparecchio che non avevo sempre con me, per cui fotografare era un atto pianificato e cosciente. Oggi, per i miei figli, la realtà vissuta si interfaccia in ogni momento con quella ricevuta dai media o prodotta da loro: tra le due non c'è più una distinzione chiara. Fare un'esperienza o viverla in un selfie è tutt'uno; o meglio sono due modalità di una stessa realtà. Andare al cinema a vedere un film diventa di conseguenza un atto molto meno originale, e dunque interessante. Per loro, penso, le inquadrature del cinema sono più vicine ai quadri di un dipinto che alla realtà di cui il cinema dovrebbe essere calco o interpretazione; forse per questo i registi stanno sperimentando altre forme, più immersive, o narrazioni, come quelle seriali».
A proposito di figli. La famiglia Chatrian è in pianta stabile a Berlino?
«Vivo a Berlino ma faccio il commesso viaggiatore che di tanto in tanto va in Italia dove vive la propria famiglia».
Come la mettiamo con la lingua tedesca? Riesce a trovare il tempo e la concentrazione per studiarla?
«Sono stato un po' aiutato dal lockdown, che tra l'altro coincideva con il periodo immediatamente successivo alla fine del Festival, quando il lavoro si riduce un poco.
D'ora in poi diventa però difficile combinare la mia attività, che ha come lingua veicolare l'inglese, con gli esercizi di tedesco, lingua affascinante ma così strutturata da non consentire improvvisazioni. Il mio obiettivo non è arrivare a raccontare i film in lingua tedesca, desidero solo integrarmi al meglio nella realtà in cui lavoro e città in cui vivo senza avere dei freni linguistici».
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