Quali sono gli effetti di una stroncatura? Perché è pur vero che gli scrittori ne soffrono, come accadde a Susanna Tamaro, il cui Va' dove ti porta il cuore, nel 1994 fece rovesciare l'opinione che aveva di lei la critica. Eppure era stata salutata come una delle nuove voci più interessanti del panorama letterario. E lei, anche in conseguenza dell'ostilità che sentiva intorno (ma era anche invidia) stette male per molto tempo e si ritirò quasi del tutto dalla scena pubblica. Non parliamo poi di Fabio Volo, che non nasconde le proprie ambizioni, però viene regolarmente impallinato. Ma i cattivi giudizi si limitano a mettere di malumore l'autore dell'opera o incidono sul morale anche dell'editore che ha pubblicato e promosso il libro? È quello che chiedo in giro, incontrando la solita ingiustificata diffidenza, a parte un Alberto Gaffi (titolare delle edizioni omonime e del marchio ItaloSvevo di Trieste), sempre ottimista e spumeggiante, che dice: «È sgradevole, ma utile. In genere è una vendetta, ma meglio così che il silenzio». Così come non ha problemi ad affrontare la questione Riccardo Cavallero, già direttore generale di Mondadori Libri Trade, e poi fondatore della Società Editrice Milanese (SEM), che pubblica ad ampio spettro, dalla letteratura alta alla narrativa d'evasione, dall'impervio Antonio Moresco allo scorrevolissimo ex questore Piernicola Silvis.
«L'importante - spiega Cavallero - è che lo stroncatore abbia almeno letto il libro, cosa che accade molto meno di frequente di quanto si pensi. Molte stroncature sono puramente ideologiche, rientrano in uno schema di favori o di regolamenti di conti. Però se sono espresse senza astio inutile, cioè sono serie, possono anche avere un effetto positivo. Questo mi fa tornare alla mente anche un episodio del cinema, il film I soliti sospetti, che divise molto la critica, che considerò banale e poco verosimile la trama, e che poi ha avuto un successo di pubblico addirittura inaspettato».
La stroncatura in sé può paradossalmente anche fare la fortuna di un libro?
«Non penso. Non dico che una critica possa fare la fortuna di un libro, non mi spingo fino a tanto, però alcune sono interessanti perché bene o male ne fanno parlare. Il che in fondo non fa male all'autore dal punto di vista delle vendite».
Quali sono, se ce ne sono, quelle che danno più fastidio?
«Bisogna distinguere se si parla di narrativa d'intrattenimento o di letteratura tout court. Nel primo caso danno molto più fastidio, perché possono distogliere una fascia di potenziali lettori, ma se si tratta di letteratura gli effetti sono diversi: una critica negativa viene recepita non tanto dal pubblico generalista dei lettori, quanto da una ristretta cerchia di conoscenti e amici, gente abituata a far caso alle opinioni degli addetti ai lavori. In questo senso dà l'impressione di voler buttare lo scrittore fuori dal salotto».
Qualche esempio?
«Il primo che mi viene in mente è Antonio Moresco, autore osannato e insultato, adorato e vituperato, poco letto appunto al di fuori del giro dei salotti, oltre che dallo zoccolo duro dei suoi ammiratori. Del resto non è certo un autore per tutti. È uno che se ne sta fuori dai giri e va avanti per la sua strada. In generale, in alcuni casi vedo critiche che alcuni ritengono ingiuste e che invece per me sono perfette».
Qualche nome autorevole che è stato bersagliato?
«Alla Mondadori ricordo che Gabriel García Márquez, premio Nobel, quindi universalmente riconosciuto, per gli ultimi libri riceveva un certo numero di critiche, ma erano pur sempre critiche dolci, velate, nessuno osava veramente dire male di lui. Fra l'altro penso a un caso contrario, quello ben noto di Stephen King. Per molti anni, decenni forse, nessuno voleva saperne, il suo lavoro era confinato nel recinto di una narrativa di genere totalmente priva di valore letterario. Poi poco a poco hanno cominciato a rivalutarlo, sempre di più, e in tutto il mondo, madrepatria compresa, dove non aveva mai goduto di buona stampa. Oggi se gli dessero il Nobel per la Letteratura nessuno avrebbe niente da ridire».
Ha senso dire che qualche parere molto autorevole o un fuoco incrociato dei recensori e della critica militante possa danneggiare anche economicamente chi ha investito su un libro?
«Non proprio. Il costo che abbiamo noi editori piuttosto è un altro: lo definisco un costo emotivo. Gli autori sono ripiegati in se stessi, sensibili, e spesso molto fragili.
A volte una critica negativa li manda in depressione per mesi, anche con modalità e per ragioni che dall'esterno appaiono esagerate o immotivate. L'effetto di questo fenomeno è che poi vengono a piangere sulla nostra spalla».
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