Per capire Alice Munro bisogna guardare Julieta, il film di Pedro Almodóvar. Uscito nel 2016, il film è uno dei più belli di Almodóvar per la statuaria levigatezza della trama; è un film spietato, che racconta di amori improvvisati e di tragedie improvvise, di genitori scassati dal senso di colpa e di figli immemori. Il personaggio cardinale Julieta, Juliet nell'originale è indimenticabile. Il film è tratto da un libro di Alice Munro del 2004, Runaway (In fuga), di acrostica perfezione. La personalità della scrittrice è lì: con felpata fermezza ha costretto il grande regista a mutare registro.
Runaway è uno degli ultimi libri pubblicati dalla Munro; Dear Life, del 2012, funge da perentorio commiato. Quando le conferirono il Nobel per la letteratura, l'anno dopo, la signora si rifiutò di volare in Svezia, «sono troppo fragile», disse. Un tizio partì per Victoria, Canada, a farle una lunga intervista. Le chiese cosa fosse per lei la scrittura; Alice Munro rispose, grosso modo, che la scrittura l'aveva divorata, aveva invaso ogni istante della sua vita quanto a lei, ergastolana del verbo, si sentiva una condannata. La chiosa è formidabile: «ma ho sempre preparato il pranzo ai miei figli». Di figli, per la cronaca, Alice Munro ne ha avuti quattro, tutte femmine. La quarta, Catherine, è morta il giorno del parto: reni malfunzionanti. Aveva sposato James Munro a vent'anni, nel 1951; insieme, dieci anni dopo, hanno fondato la Munro's Book, imponente libreria di Victoria: esiste ancora. Il matrimonio naufragò nei primi anni Settanta, grosso modo quando Alice esordisce alla letteratura, prima con Dance of the Happy Shades (1968) poi con Lives of Girls and Women (1971). Alla Paris Review, che nel 1994 gli dedica una delle sue oceaniche interviste, dirà che optare per il racconto breve era stata, letteralmente prima che letterariamente, una scelta obbligata. «Quando le mie figlie erano piccole, scrivevo la mattina, mentre erano a scuola. Ho lavorato duro in quegli anni: con mio marito avevamo la libreria da mandare avanti. Consideri che c'erano anche le faccende domestiche».
Sostanzialmente priva di eventi esuberanti, la vita della Munro è scandita dalla scrittura, demone ubiquo. «Quando ero incinta, per dire. Scrivevo disperatamente, perché pensavo che dopo il parto non ne sarei più stata in grado. Ogni gravidanza mi ha spronato a fare cose grandi che in realtà si sono rivelate modeste». Spietata con se stessa, Alice rivede i racconti fino all'ossessione, li dilania. «Scrivevo durante il sonnellino dei figli. Dalle due alle tre del pomeriggio. Me lo ricordo bene, è stato intorno a Lives of Girls and Women. Scrivevo la sera, fino all'una del mattino; alle sei tornavo al lavoro. Pensavo: la scrittura mi ucciderà, mi verrà un infarto. Ma continuavo. Era una specie di corsa disperata, disperata. Non ho mai più avuto l'energia di allora».
Era nata Alice Ann Laidlaw il 10 luglio del 1931 a Wingham, Ontario; il padre, Robert, discendeva da un poeta scozzese, James Hogg, amico di Walter Scott. Allevava volpi: la figlia, lentamente, finì per assomigliare a quelle scaltre, benedette bestie. Ci scherzava, perfino: per scrivere adottava la pratica della faina e della volpe. Adocchiava il tema, la sua preda, la custodiva, per così dire, nell'arco di lunghe veglie; infine: lo spiraglio, la razzia, l'assalto. Uccide con spaventosa eleganza, la volpe. «Ho vissuto in periferia, a North Vancouver. La vita passava secondo schemi consueti: era difficile stare soli. I mariti uscivano la mattina per andare a lavorare e tornavano la sera; le donne parlavano di aspirapolveri e di come lavare i capi di lana. Ficcavo mia figlia nel passeggino e camminavo per chilometri, evitando di incontrare chiunque. La vita era gestita in modo rigoroso, con pochi svaghi consentiti, opinioni bene accette, formalità a cui, come donne, dovevi piegarti per obbligo. L'unico scopo, pensavo, era sedurre i mariti delle altre alle feste oppure, scrivere».
In Italia, i libri di Alice Munro sono editi da Einaudi, spesso adornati da copertine stranamente respingenti; nel 2013 Mondadori ha raccolto in un Meridiano i suoi Racconti. Nel 1995, però, è stato l'editore e/o a scommettere sulla Munro, pubblicando una delle sue raccolte più note, Chi ti credi di essere? (la copertina, con donna preraffaellita, è bellissima). Secondo Cynthia Ozick lo hanno scritto in centinaia la Munro era the Canadian Cechov; non so se sia un complimento. L'onnipotente Harold Bloom, che ha curato, nel 2009, un libro critico sulla Munro, insegna che «Il suo non è un genio visionario, tanto meno simbolista. L'arte di Alice Munro è strettamente mimetica, anche se ciò che imita è l'ingarbugliata trama che tiene le fila della nostra sorte Una sorta di ordinaria infelicità, mai così colorata, tuttavia, è il carisma della maggior parte dei suoi personaggi». Bloom installa Alice Munro «tra i maggiori scrittori di racconti del ventesimo secolo»; tra Tommaso Landolfi e Rudyard Kipling, Flannery O'Connor, Vladimir Nabokov e Julio Cortázar; un passo sotto i suoi cari lari, Henry James, Kafka, Borges, Faulkner, Joyce. Quanto a lei, granitica lettrice «la lettura, fino a trent'anni, è stata tutto per me: vivevo nei libri» preferiva gli scrittori degli Stati Uniti del Sud: Eudora Welty, Katherine Anne Porter, Carson McCullers e Flannery O'Connor su tutti. «Ho la sensazione che le donne sappiano scrivere meglio il marginale, l'eccentrico».
Lo scrittore di racconti è un po' come il portiere nel calcio: fa una partita a parte nel consesso letterario, spesso al buio. Ogni suo gesto, però, è supremo non conosce il superfluo, non ha il privilegio dell'errore. Alice Munro va letta in qualsiasi foggia, con foga, cominciando dal primo libro che trovate in libreria. The Love of a Good Woman (1998) la consacrò tra i grandissimi; conquistò il National Book Critics Award, andato prima di lei a John Updike, Philip Roth e Cormac McCarthy. In molti l'hanno paragonata a Raymond Carver, ma nell'arte efferata del racconto non esistono epigoni né discepoli, soltanto pionieri. Al New York Times, dove la perizia del coccodrillo' è pari a quella dell'haiku, hanno dichiarato la Munro «venerabile».
Da un decennio si era inabissata nella demenza senile. Da ragazza aveva curato la madre, Anne, affetta da Alzheimer. È morta in una casa di cura. Sola. Ecco. Dobbiamo pensare ad Alice Munro mentre qualcuno la imbocca.
Dei suoi personaggi, imbottiti di destini inferiori, ha raccontato le ombre, appena miniate su papiro di vetro. In quelle ombre, ora, si è inabissata. Sulla neve, la volpe non lascia traccia di lei, resta l'esigenza di un angelo.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.