"Riciclati" in ritardo ma sono ancora in tempo per un mondo migliore

Quarant’anni fa parlare di "fine delle risorse" era impopolare. Ma oggi ce lo siamo dimenticato

Ho avuto la fortuna, più di quarant’anni fa, di conoscere l’uomo che per primo parlò, scrisse, predicò su un tema drammatico: i limiti dello sviluppo del nostro pianeta, prevedibili in un futuro non molto lontano. Un pensiero addirittura rivoluzionario in quel momento d’osanna generale al progresso senza fine e allo sviluppo, anche se incontrollato. Su suo suggerimento, tentai con Carlo Alberto Pinelli, coautore in film impegnativi e compagno nelle prime battaglie ecologiste (parola ancora pressoché sconosciuta in Italia, negli anni Sessanta) di tradurre le idee d’avanguardia di Aurelio Peccei in un film dedicato ai problemi da lui indicati. Ed attingemmo anche alle ricerche di altri «scienziati del prossimo futuro» riuniti, dallo stesso Peccei, nel famoso «Club di Roma». Purtroppo, il nostro film dedicato alle loro idee sopravvisse solo pochi giorni sugli schermi dei cinema. E mai fu presentato in televisione. La gente, e non solo in Italia, non voleva sentir parlare, nemmeno accennare, a problemi ambientali. Cadeva nel vuoto ogni previsione sulla «fine delle risorse». Sull’esaurirsi, prima o poi, di quel petrolio le cui scorte sotterranee, oggi, sono infatti sempre più impoverite. Un problema oggi all’ordine del giorno. Successivi incontri, non solo con un genio come Peccei, ma con altri studiosi dell’(allora) prossimo futuro, mi convinsero delle ragioni di chi sosteneva il ricorso al nucleare. Soluzione inevitabile per l’umanità in crescita, e lo sviluppo di sempre più estese e popolate aree del mondo. È poi esplosa la maledizione che tutti ricordiamo: Chernobyl, con il conseguente isterismo collettivo, la demonizzazione del nucleare, e lo stop in Italia del primo avvio in quel campo. Con le insensate, precipitose trasformazioni (o addirittura gli abbandoni) di quanto già in cantiere, con la grave colpa di disperdere il personale tecnico che oggi rimpiangiamo. A tutt’altro livello, di ben minore, anzi di minuscola, importanza, le conseguenze sul piano personale. Dopo Chernobyl, s’impose il principio di condannare con feroce scomunica chi riteneva d’essere un ambientalista ma continuava a credere nel nucleare. No, non poteva parlare d’ecologia chi non aderiva alla condanna di una tanto diabolica invenzione della scienza. Ovviamente questa scomunica non ha convinto all’abiura né il sottoscritto né ambientalisti assai più importanti. Coloro che oggi assistono stupiti alla conversione al credo nucleare di chi ieri lo condannava. Nessuno deve meravigliarsi di questo voltafaccia. Anzi ci si può rallegrare nel leggere di quanti si dicono improvvisamente convertiti ed inneggia precipitosamente alla notizia che le fonti della pulita energia nucleare già permettono all’Europa di non immettere nell’atmosfera 700 milioni di tonnellate di velenosa anidride carbonica ogni anno (oltre ai 270 milioni di tonnellate risparmiate dalla sola Russia). Nessuna sorpresa nemmeno nello scoprire tra i predicatori che condannavano al rogo chi la pensava diversamente da loro, chi si gonfia il petto vantando anche i vantaggi derivati da quell’energia solo ieri maledetta. Come la sua miracolosa capacità di produrre acqua desalinizzata in quantità crescenti; e quindi di poter affrontare in un prossimo futuro il problema della sete, afflizione di tante contrade del mondo. Sì, ora sono certi della bontà miracolosa del nucleare, i predicatori dell’ambientalismo sino a ieri maledicente. Meglio così. Godranno anche i loro figli e i loro nipoti di un mondo non precipitato nell’orrore di una crisi irrisolvibile.

Un salvataggio in extremis cui contribuirà, certo, anche lo sviluppo di preziose energie alternative (il sole, il vento); ma che non sarebbe mai stato sufficiente a salvarci. Solo a salvarci sarà l’intervento nel vitale settore dell’energia, dei 600 nuovi reattori che verranno costruiti entro il 2030.

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