Alberto Pasolini Zanelli
da Washington
Almeno per ventiquattrore linquilino della Casa Bianca bersaglio della maggior copia di frecce, alcune spuntate, ma altre avvelenate, non è stato George Bush, bensì un suo predecessore ormai lontano, Jimmy Carter. Se nè andato (anzi, è stato spinto fuori) dalla presidenza nellormai remoto 1980, ma nelle cronache rimette piede alquanto spesso, in genere come sfortunato mediatore, ma stavolta anche come autore di un discusso best seller. Un libro il cui titolo, una volta tanto, spiega tutto, e si presenta per quello che è: una proposta, anche ambiziosa, in campo internazionale: «Pace senza apartheid». Non tratta del passato del Sud Africa, bensì del futuro del Medio Oriente. La pace è il traguardo, lapartheid sarebbe la formula che in pratica proporrebbe e perseguirebbe Israele, con la Palestina trattata pressa poco come un Bantustan: territori non contigui a sovranità limitata e con cittadini di secondordine. Allora erano i neri, oggi sarebbero i palestinesi.
A Carter la prospettiva non piace. Spiega bene il perché, non altrettanto chiaramente che cosa egli proponga invece. È un po il suo destino di estensore di piani nebulosi. Ma non tanto da non essere intesi da almeno uno degli interlocutori e bollati, magari con troppa severità ma non senza appigli, come ostili ad Israele. Le critiche piovono come sferzate, perfino un ex collaboratore abbandona Jimmy e lo coinvolge in una vicenda, per la verità piuttosto fumosa, di plagio cartografico: le mappe che ornano il volume e che si riferiscono alla proposta restaurazione dei confini di prima del 1967 sarebbero la scopiazzatura di una ricostruzione ipotetica. Si tratta, in casi come questo, di dettagli, ma che contribuiscono a gettare olio sul fuoco, proprio nel momento in cui i «saggi» della politica Usa premono su Bush perché imprima nuova energia al ruolo americano nel Medio Oriente. Però i «saggi» partono da un esame oggettivo della situazione in una più vasta accezione di Medio Oriente, mentre Carter dà limpressione di partire da una sorta di apriorismo morale, che in pratica sbilancia la sua proposta e apre il fianco alle accuse di ostilità pregiudiziale nei confronti dello Stato ebraico. Col risultato che una iniziativa di Carter sul Medio Oriente si trasforma in una polemica non sul Medio Oriente, ma su Carter.
Non è la prima volta, è un po un destino dellattivismo di questo ex inquilino della Casa Bianca, che è «etico» ed umanitario, non del tutto diverso dai sentimenti che nutrono la «crociata» dei neoconservatori per lespansione della democrazia. Il problema è in realtà il portatore più che il messaggio. Jimmy Carter è, a parere di molti, il più attivo e idealista fra gli ex presidenti. È intervenuto ormai su tutti i conflitti che solcano il pianeta, proponendo ricette che denotano più buona volontà che saggezza. Jimmy non analizza, ma si butta, spesso di persona, a volte mettendo in imbarazzo i suoi successori. Per esempio quando Bill Clinton decise di intervenire militarmente ad Haiti per rovesciare la giunta militare. Carter, suo compagno di partito, cercò di impedirlo in tutti i modi, recandosi sul posto ad assumere per qualche tempo il ruolo di ostaggio volontario. Si spinse fino a invitare il capo della giunta a partecipare con lui ai servizi divini nella sua parrocchia rurale in Georgia, forse ad imitarlo nel tenere un sermone domenicale. Le ostilità scoppiarono lo stesso, Clinton invase lisola e cacciò il dittatore (che poi la situazione ad Haiti sia migliorata a causa di questo rimane dubbio). Non conta se Carter avesse ragione o meno. Conta invece che delle idee «rivoluzionarie» (per strampalate che siano) arrecano nei Caraibi un danno limitato, mentre possono essere esplosive in unarea «calda» e vitale come il Medio Oriente. Dove Jimmy si presenterebbe, inoltre, con una reputazione non delle migliori. Non da ex presidente (un pulpito in cui ogni eccesso di idealismo è lecito), ma da presidente in carica: quando minacciava di scoppiare la rivoluzione degli ayatollah in Iran, tamponata dallo Scià.
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