Il rifugio delle mogli bambine di Herat dove abitano mille piccole speranze

Vendute per un paio di pecore dalle famiglie, costrette ai lavori più orribili dai mariti padroni, violentate negli affetti, private di ogni gesto d'amore. In Afghanistan una casa famiglia cerca di ridare un futuro a chi non ha mai avuto un'infanzia. Con l'aiuto dei soldati italiani

Giocare anche solo con una palla, correre, saltare, ricevere l'affetto di una famiglia, in una parola il desiderio di essere bimba. In Afghanistan se c'è un'infanzia violata è proprio quella delle bambine. Ad alcune viene appena dato il tempo di sbocciare, per altre vengono prima le esigenze della famiglia e quel piccolo fiore diventa merce di scambio. A Herat c'è una casa rifugio per donne e bambine, dai 10 ai 30 anni, ed è un libro aperto di storie di adolescenti costrette troppo presto a diventare donne, prima dalle famiglie e poi da mariti-padroni. Nafisa ha 15 anni. Si è sposata cinque anni fa. Ne aveva solo dieci. Suo padre l'ha scambiata con delle pecore e delle mucche. La sua famiglia l'ha promessa non come una sposa, ma come schiava. «Il giorno che è arrivata al rifugio di Herat - dice Suraya Pakzad, che ha voluto la struttura nel 2005 - nessuno riusciva a credere che quelle mani appartenessero ad una donna. Se avesse avuto indosso un burqa e fatto vedere solo le mani, tutti avrebbero pensato a quelle di un uomo». Le mani di Nafisa sono grosse come quelle di un muratore. Suo marito le ha fatto costruire quattro stanze. Ogni mattina quando usciva le chiedeva di preparare 100 mattoni di fango. Quando tornava a casa la sera poi le chiedeva di preparare la cena e poi la portava nei campi. «La portava la sera - racconta la Pakzad - perchè durante il giorno aveva vergogna di far vedere che faceva lavorare la moglie nei campi e cosi aspettava la sera. Poi lui si sdraiava sull'erba e si metteva a dormire. Solo all'alba la riportava a casa. Durante il giorno la piccola non riusciva a stare in piedi per la stanchezza ma andava avanti lo stesso terrorizzata dal pensiero che se non preparava tutti i mattoni sarebbe stata picchiata».
Il suo più grande desiderio ora, dopo aver ottenuto il divorzio, è quello di tornare dai genitori e stare con loro anche se non riescono a procurarle tre pasti al giorno. «Una volta va bene» dice toccandosi quelle mani che non le dovrebbero appartenere. Suraya Pakzad è la fondatrice del centro nonchè direttrice di «Voice of Women Organization», una Ong creata nel 1998 con lo scopo di tutelare i diritti delle donne in Afghanistan. Mentre abbraccia le sue ragazze racconta la storia di Mariah. La piccola cammina a fatica, è caduta dal tetto mentre cercava di sfuggire al marito che stava cercando di ucciderla. «Oltre a proteggere queste bambine - spiega - ci occupiamo anche del loro divorzio, altrimenti i mariti per legge potrebbero riprendersele».
Pari invece non sa quanti anni ha, forse 12. Si è sposata un anno e mezzo fa ed è venuta al centro sei mesi fa. Il marito abusava di lei e dopo un anno di violenze domestiche è riuscita a scappare. «Stiamo lavorando - continua Pakzad - per farle ottenere il divorzio e poi potrà tornare dai suoi genitori. Attualmente potrebbe stare con la famiglia, ma il marito potrebbe riprendersela con la forza perchè secondo la legge sono ancora sposati». Pari dice che ora non ha più paura perchè a proteggerla c'è un gruppo di donne. Il marito era drogato e violento. Racconta che l'ha sempre trattata come una schiava: se non riusciva a soddisfare i suoi desideri la piccola veniva picchiata, rinchiusa in una stanza per ore e lasciata senza mangiare. Banafsha ha undici anni. Si è sposata due anni fa, quando aveva solo nove anni. Suo padre ha otto figli ed è senza lavoro. Lei è diventata merce di scambio per mille dollari. Mentre Banafsha racconta la sua storia gioca con una palla che le è stata regalata dalle soldatesse italiane del Prt di Herat. Le toccava pulire la casa, fare il bucato, preparare da mangiare. Mai ricevuto un gesto di amore. Quando è scappata pensava di non farcela ma niente era ormai peggio di vivere in quella casa. Ora è contenta, non vede l'ora di ottenere il divorzio e tornare a scuola. Da grande vuole fare l'assistente sociale per aiutare le donne che sono nella sua stessa situazione.
Le truppe italiane del 1mo Reggimento Artiglieria da Montagna della Brigata Alpina Taurinense vengono qui periodicamente.

Hanno appena scaricato sacchi di riso, fagioli, latte, dolci e tanti giocattoli: «Portiamo loro cibo, giocattoli - spiega il colonnello Emanuele Aresu, a capo del Prt 13 di Herat che sta portando avanti una politica di sostegno alle donne afghane - oltre ad offrire assistenza sanitaria. Per l'anno prossimo abbiamo in programma di costruire loro un nuovo edificio». Dove poter ospitare la speranza di una vita migliore.

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