Rinascimento infranto

Rinascimento infranto

Fino all’ultimo, con supremo sprezzo del reale, il governatore della Campania ha difeso gli effimeri sogni del presunto rinascimento tardo-bassoliniano a Napoli e dintorni, ma i sogni, quando non muoiono all’alba, schiattano sotto il peso di fatti, cifre e circostanze che implacabilmente si raccolgono al ministero dell’Interno. Ieri il Consiglio dei ministri, su proposta del responsabile del Viminale, ha sciolto, per accertati condizionamenti da parte della criminalità organizzata, il consiglio di un comune del Palermitano e quelli di cinque comuni della Campania, fra i quali Afragola, patria proprio di Antonio Bassolino. E poiché c’è sempre una prima volta, ha sciolto anche il vertice della Asl 4 di Pomigliano d’Arco.
La concentrazione territoriale di quasi tutti i provvedimenti spiega da sola la gravità della lotta per il recupero della legalità a Napoli e nell’area contigua. Non c’è soltanto una sfida della camorra, in quartieri degradati e storicamente segnati, per il controllo del mercato della droga e degli altri traffici illeciti, c’è anche l’assedio dei clan ad affari, appalti e fondi nei quali si materializza la spesa degli enti locali e di Asl chiacchierate, non a caso, come la numero 4 di Pomigliano d’Arco. Storia vecchia eppure sempre nuova, perché muta l’articolazione sociale e la capacità d’infiltrazione del crimine organizzato. La camorra – le camorre – non è un occupante «straniero» che taglieggia i buoni, prospera nell’intreccio con una parte apparentemente «normale» della popolazione, tresca con una certa politica, l’ama e ne è riamata.
Storia antica che però ha sempre il potere d’indignarci, anche se ci rendiamo conto che è impossibile, in breve volgere di tempo, rimediare ai guasti di una stagionata corrosione. Il Mezzogiorno per tanti italiani prima d’essere un problema è una ferita. Per Napoli si soffre due volte. Perché ha due facce, potenzialità economiche e tradizione culturale che convivono con la maledizione dei nuovi «lazzari», e poi perché ci hanno ingannato, o almeno hanno spudoratamente tentato d’ingannarci. Fra i consigli comunali sciolti c’è quello di Afragola, la patria di Bassolino. Non è una questione penalmente rilevante, ma è un disastro simbolico. Quando uno diventa governatore, non dovrebbe avere a cuore le sorti della sua piccola, piccola patria? Che se ne fa del potere?
Ma il dramma di Afragola è simbolico anche per un altro motivo. Mentre la camorra continuava a fare i suoi affari, a infiltrarsi in consigli e comitati direttivi, a intimidire, taglieggiare, appaltare, votare, Antonio Bassolino da Afragola si prodigava a spiegarci come il suo favoloso modello di governo di sinistra rivitalizzava Napoli, la faceva rinascere nel limitato splendore di qualche restauro e nel fragore di qualche «tammurriata» in piazza.
La favola bella è finita, resta il dramma di una città e di un entroterra in cui spesso la sovranità della legge va riconquistata metro per metro, insieme con le regole della democrazia e delle autonomie.
La Regione governata da Bassolino ha delle cose da spiegare. Deve chiarire lo sfascio della Asl 4 e altre cosette.
Che ci fosse del marcio, e che i coperchi stessero per saltare, lo si è capito quando il governatore della Campania è stato attaccato dai suoi stessi compagni. Bassolino ha reagito in maniera sprezzante, affermando che i suoi critici compagni facevano il «gioco della destra».

Ma ci pare che qui destra e sinistra non c’entrino, si tratta soltanto di adottare sistemi di governo e di gestione che tengano lontani dai centri di spesa periferici malavitosi di consumata esperienza. Dispensatori, all’occorrenza, di morte e di voti.

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