Ripensandoci è meglio dire addio a Keynes

Ci si chiede se la tenuta dei conti pubblici operata dal ministro Tremonti (e riconosciuta da tutti soprattutto in sede internazionale) sia da considerarsi sufficiente o se si doveva fare di più e di meglio. La domanda non è affatto oziosa per un semplice fatto. I parametri di Maastricht richiedono di contenere il debito pubblico entro il 60 per cento e il disavanzo pubblico annuale entro il 3. Siccome questi numeri sono il risultato di una frazione dove al denominatore c’è il Pil e al numeratore ci sono il disavanzo e il debito, i modi per diminuire quel famoso numerino sono due: o diminuisce il numeratore (cioè il debito/disavanzo) o aumenta il denominatore (cioè il Pil). Non si tratta solo di una questione matematica, bensì di una questione di politica economica piuttosto complessa.
Franco Reviglio affronta la questione nel suo ultimo libro Goodbye Keynes? Le riforme per tornare a crescere (Guerini e Associati, pagg. 140, euro 15). Reviglio è professore di Economia Pubblica a Torino, ma soprattutto è stato ministro delle Finanze e del Bilancio nei governi che all’inizio degli anni ’90 hanno dovuto operare tagli della spesa pubblica attraverso riforme radicali. Il riferimento a Keynes riguarda una tesi centrale del libro: l’impossibilità di utilizzare la ricetta keynesiana nel contesto attuale e l’errore di averla utilizzata in situazioni simili nel recente passato. «Dall’inizio degli anni Ottanta - scrive Reviglio - l’impiego delle politiche keynesiane per contrastare una disoccupazione non più di natura ciclica, ma strutturale per gli effetti della globalizzazione, ha mostrato i suoi limiti e si è dimostrato non solo inefficace, ma anche dannoso. I debiti pubblici sono aumentati, soprattutto nel caso dell’Italia, senza però produrre i desiderati effetti positivi sulla crescita e sull’occupazione e nello stesso tempo si sono innescati i germi dell’instabilità finanziaria». Si è accumulato un debito pubblico enorme, il terzo al mondo, senza innescare un ciclo economico virtuoso e di crescita dell’economia. Anche perché il debito è stato creato da una spesa pubblica non indirizzata a creare le condizioni dello sviluppo (a esempio attraverso lo sviluppo delle infrastrutture) ma nella logica dello scambio consenso politico/spesa che ha dominato l’economia pubblica per qualche decennio della storia italiana. Una sorta di keynesismo da ciclo elettorale continuo.
Di fronte agli esiti di questo keynesismo sbagliato la situazione attuale appare più chiara. Non è l’effetto di politiche neoliberiste che, incuranti della questione sociale, propugnano tagli alla spesa a favore solo della logica efficientista del mercato. È vero il contrario: proprio le politiche keynesiane (anche se in una interpretazione sbagliata) hanno provocato il disastro della spesa pubblica cui ci troviamo di fronte e che dobbiamo fronteggiare. Ormai è dimostrato che i Paesi con un debito pubblico superiore al 90 per cento del Pil hanno un tasso di crescita inferiore perché spiazza gli investimenti privati, non accresce la produttività (perché la maggior parte del debito stesso è stata accesa per la spesa corrente e non per gli investimenti), tiene la pressione fiscale alta a causa degli elevati interessi che lo Stato deve pagare.
In questa situazione l’imperativo categorico sarebbe calare le tasse per favorire la crescita e, quindi, calare il debito pubblico, ma ciò è reso impossibile dal debito pubblico stesso.

Reviglio sostiene che occorra più incisività nel recupero dell’evasione fiscale e che occorra spostare in modo sostanziale il carico fiscale dalle persone alle cose, come direbbe Tremonti. Sembrano obiettivi che si stanno allontanando.

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