Nato a Orléans. Ci sono vite, come diceva Giovanni Testori a proposito di sé stesso, che per esser dette hanno bisogno solo di un luogo. Dici «nato a Orléans» e in qualche modo hai detto tutto. Così è stato per Charles Péguy, lo scrittore, il genio che riuscì e riesce a scandalizzare ogni pensiero comune, il genio che ci obbliga a pensare e ci vieta di pensarla (in qualunque modo, anche come lui), capace - da socialista - di scandalizzare i socialisti e - da cattolico - di scandalizzare i cattolici. Gloria di Francia, amato da molti, incluso nella prestigiosa Pléiade, e al tempo stesso corpo intrattabile, antimoderno fino all'osso eppure anche lui «più moderno di ogni moderno» (come scrisse Pasolini e come riconoscono gli studiosi più intelligenti, da Balthasar a Bastaire, da Finkielkraut a Compagnon).
Giorgio Bruno, storico e insegnante, ci offre il proprio eroico tentativo di avvicinare Péguy con questo Charles Péguy. Amico presente (ed. Ares, pagg. 256, euro 16).
Dico subito, per essere chiari, che il fatto che Bruno consideri Péguy suo amico è cosa di ben poco conto, come lo è in generale il fatto che un lettore dichiari la propria amicizia per uno scrittore. I libri sono oggetti crudeli, contano forse sull'empatia ma non pretendono amici.
Per fortuna, Bruno ha molti argomenti per rendere interessante il suo libro. Come un tenace segugio, bracca il poeta con una bella serie di istantanee, dall'infanzia agli studi (troppo geniale per ottenere facili trionfi) alla sua precoce natura di leader animato dalla strana pretesa - lui come la sua antenata e conterranea Jeanne D'Arc, cui dedicherà uno dei poemi più belli scritti negli ultimi secoli - di dare vita e corpo a ciò che l'opinione comune (compresa quella cattolica) considera astratta o comunque parte del mondo delle idee. E questo disturba nemici, e amici.
Bruno è molto scrupoloso, e gliene siamo grati, anche nella ricostruzione del pensiero di Péguy. Il rapporto dello scrittore con l'opera di Bergson aiuta tra l'altro a stabilire un inedito, ma per niente peregrino parallelo con Marcel Proust, che a uno sguardo superficiale non sembrerebbe avere niente in comune con Péguy. Bruno osserva acutamente come tutta la vita, l'opera e il pensiero di Péguy si muovano in un orizzonte agostiniano, trattenendo come in un solo contenitore memorie familiari, formazione intellettuale e illuminazioni poetiche. Eppure lo stesso si potrebbe dire di Proust, e sarebbe bello leggere la Recherche all'ombra di Péguy: sono certo che potremmo toglierlo dalla teca in cui la cultura novecentesca lo ha sistemato, riducendolo nel 99% dei casi a una brioche inzuppata in un infuso di tè. Bruno ci aiuta a non scappare davanti alla refrattarietà fisiologica dell'opera e del personaggio-Péguy. Oggi è di moda (e lo si può comprendere nel clima di tragedia che ci avvolge) un'idea di uomo fragile, che non nasconde la debolezza, la propria incoerenza, e perfino l'eroe invincibile di tanti film deve tassativamente esibire il proprio lato umano, ossia debole, incerto, tutt'altro che infallibile.
Ma Péguy detesta, guarda un po', l'uomo che non riesce a dormire pensando ai propri errori, ai propri peccati, e gli rivolge il più insopportabile dei consigli: «quei peccati che tanto ti tormentano, amico mio, bastava non farli quando eri in tempo, perciò adesso dormi, e cerca di evitare i peccati di domani».
L'incultura imperante ci ha persuaso che il vizio e l'errore siano più umani della virtù, in altre parole: che è da uomini cedere alla facilità più che impegnarsi con la dura realtà. Be', Péguy non la fa mai facile. Da uomo, da poeta, da animatore culturale (basti pensare che la sua rivista, i leggendari Cahiers de la Quinzaine, fu redatta quasi unicamente da lui). Per questo disturba sempre, tanto i nemici quanto gli amici; per questo è, sì, un grande classico ma resta insepolto e non si è trovato il modo di infilarlo in nessun mausoleo. Vorrei concludere con due osservazioni finali, un (piccolo) segno meno e un (grande) segno più. Il piccolo segno meno: meglio non eccedere nelle spiegazioni. Bruno è professore, e tende talvolta a ridurre alcuni aspetti di Péguy a un discorso rassicurante, di vaga impronta giussaniana. Capisco l'intento, ma non è necessario. Lasciamo che lo scandalo faccia il suo corso, senza sistemarlo troppo nei nostri discorsi.
Il segno più, ben più corposo, sta invece nella e nella vastità ricchezza delle citazioni, nell'intelligenza delle scelte e nella qualità e pertinenza delle traduzioni.
Péguy ha sofferto diverse pessime traduzioni italiane e sarebbe bello se Bruno ci offrisse una nuova traduzione di alcune tra le opere maggiori di quest'uomo che, pur morto 109 anni orsono, si trova nella situazione di dover essere ancora raggiunto dalle nostre attuali categorie. Come è accaduto per Bach o per Nietzsche, così deve accadere anche per lui.
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