Ritmi da record contro il Cavaliere Niente stop al processo Ruby

Il dibattimento va avanti senza attendere la Consulta. L'avvocato Ghedini: "Uno schiaffo". Giudizio a tappe forzate per Minetti, Fede e Mora: prima udienza a novembre

Ritmi da record contro il Cavaliere  
Niente stop al processo Ruby

Milano - Tutto secondo le previsioni. Va avanti il processo a Silvio Berlusconi, e parte a ritmi da record il processo ai suoi coimputati: il direttore del Tg4 Emilio Fede, il consigliere regionale Nicole Minetti e Lele Mora, già agente dei divi e delle dive, oggi in disgrazia, vengono rinviati a giudizio con l’accusa di avere arruolato le ragazze da mandare alle feste del premier ad Arcore. Che la giornata giudiziaria milanese, dedicata ai due tronconi del «Rubygate», andasse a finire così era praticamente scontato. Meno scontato è il ritmo che i giudici decidono di imprimere ai processi. L’inizio del dibattimento per Fede, Mora e Minetti viene fissato per il prossimo 21 novembre, tra poco più di un mese e mezzo, anche se non ci sono imputati detenuti né rischi di prescrizione. Rapidità senza precedenti.

Non è un caso che Piero Longo e Niccolò Ghedini, i due legali del presidente del Consiglio, escano dal Palazzo di giustizia scuri in volto. «L’accordo è saltato», dice Longo. Parla dell’intesa raggiunta tempo fa con i vertici del tribunale milanese: Berlusconi si impegnava a essere presente tutti i lunedì in aula, o comunque a permettere che le udienze si tenessero; il tribunale garantiva un calendario che gli permettesse di continuare a fare il capo del governo. «Invece adesso - dice Ghedini - ci vengono fissate udienze di lunedì, mercoledì, venerdì, sabato. Siamo di fronte a una accelerazione incomprensibile. L’unica spiegazione è che l’imputato si chiama Silvio Berlusconi».

Ghedini e Longo hanno appena lasciato l’aula dove Berlusconi è sotto processo per i contatti ravvicinati con Karima el Mahroug, ovvero «Ruby», quando la ragazza era ancora minorenne, e per le pressioni che avrebbe esercitato sui vertici della questura milanese per farla rilasciare quando venne fermata per furto. I legali hanno chiesto di fermare il processo, congelando i tempi della prescrizione, in attesa che la Corte Costituzionale si esprima sullo scontro che questo processo ha innescato tra la Procura milanese e la Camera dei deputati, con Montecitorio che accusa Ilda Boccassini & C. di avere inquisito Berlusconi per un fatto - le telefonate alla questura - compiuto in veste di premier, e quindi di competenza del tribunale dei ministri. Ma i giudici, dopo lunga riflessione, decidono: niente da fare, si va avanti. Ghedini: «Hanno dato uno schiaffo alla Corte Costituzionale».

Quattro piani più su, intanto, si compie la sorte di Fede, Minetti e Mora, accusati - nel secondo troncone del «Rubygate» - di avere reclutato le ragazze per Arcore. Udienza affollata di belle donne: c’è la Minetti, unica presente degli imputati («Ho voluto farmi vedere in faccia dal giudice»), e ci sono le uniche tre, tra le tante giovani identificate dalla Procura come ospiti delle feste, che puntano a costituirsi parte civile: sono Ambra Battilana e Chiara Danese, e la marocchina Imane Fadil. Anche qui, le difese chiedono una pausa, per trascrivere completamente le intercettazioni. Il giudice Maria Grazia Domanico dice no. E, dopo ulteriore breve riflessione, rinvia a giudizio tutti e tre gli imputati per tutti i capi di imputazione: induzione alla prostituzione, per i rapporti con le ospiti maggiorenni delle feste; e induzione alla prostituzione minorile per la vicenda di «Ruby». Proprio all’arrivo di Karima el Mahroug a Milano, nel dicembre 2009, la Domanico fa risalire l’inizio dell’affaire, radicando così la competenza a Milano. Il processo comincerà il 21 novembre, davanti alla quinta sezione del tribunale milanese.

Tappe forzate, dunque: una corsia preferenziale di cui le due parti in causa danno spiegazioni e valutazioni diverse.

La Procura - come spiega Ilda Boccassini, opponendosi al rinvio del processo a Berlusconi - ritiene che i tempi stretti siano un gesto doveroso nei confronti del capo del governo, che - proprio per l’incarico che ricopre - ha il diritto di vedere riconosciuta in fretta la propria innocenza. Per Ghedini e Longo, invece, sono l’ennesima prova dell’accanimento.

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