Cominciamo col confessare, tutti, che non è stata una sorpresa. E che non poteva essere una sorpresa. Alla fine di ottobre 2006 a Budapest è successo quel che sarebbe accaduto, sarebbe dovuto accadere, in qualsiasi altro Paese democratico con un passato totalitario alle spalle: la gente si è ribellata a un governo che, magari per motivi non tutti ignobili, ha immaginato di poter celebrare il cinquantenario di una rivolta di popolo escludendo il popolo. Le piazze piene a Budapest, quei piccoli centri di sommossa nelle strade, quei sassi e, sì, anche quelle pallottole di «gomma dura» sono dettagli inevitabili: il senso degli eventi è altrove, la normalità democratica è, in casi come questo, nel «disordine» e non in un ordine surreale. La rivoluzione ungherese del 1956 poteva, al limite, non essere celebrata: non poteva essere celebrata nel chiuso di un sinedrio di commentatori, professori, anestesisti. Tanto più che gli «ammessi ai lavori» erano in gran parte discendenti politici non degli ispiratori della rivolta bensì dei gestori della repressione.
LUngheria è governata in modo democratico da unalternanza di forze politiche fra un centrodestra rissoso e ancora in buona parte ingenuo e una sinistra che si è riciclata piuttosto a fondo dal regime comunista ma non in tutti i sensi. Il Partito socialista che a Budapest scivola a sani intervalli dal governo allopposizione e viceversa è lerede graduale del Partito comunista che esercitò la dittatura. I riformisti del campo totalitario sono diventati leader di una delle due fazioni in campo democratico. Non succede solo in Ungheria: anche la Polonia, ad esempio, ha visto il pendolo muoversi piuttosto profondamente in entrambe le direzioni, per ultimo con un vero e proprio balzo da sinistra a destra. In Ungheria gli spostamenti sono in genere meno drammatici, anche perché i risultati sono spesso molto serrati. La maggioranza uscita dalle ultime elezioni, di sinistra, lha spuntata per una manciata di voti e uno o due seggi. Un risultato, in questo, allitaliana. Inevitabilmente non si tratta di una formazione di ideologi nostalgici. Semmai le nostalgie degli eredi dei Gorbaciov magiari (i registi della prima fase della «rivoluzione di velluto») possono avere nostalgia di un «ordine» legato a un potere che tiene e preferisce tenere lontana la gente qualunque, costituita di «emotivi» e magari di «incompetenti». Il motto interiore della nuova élite potrebbe essere questo: «Lasciateci lavorare: noi siamo i professionisti».
Uno stato danimo che è molto probabilmente alla radice delle recenti polemiche, tensioni, disordini. Che nascono per cominciare da una bugia: il primo ministro Ferenc Gyurcsany «ritoccò» la verità, principalmente quella economica, facendola apparire più rosea, ai fini di essere rieletto. Non succede solo in Ungheria, ma due contabilità parallele, una per gli esperti e una per il volgo. Dopo le elezioni, Gyurcsany lo ha «confessato» come rivelato da uno dei tanti nastri registratori che ci inondano in questi ultimi tempi. Ha ammesso che mica le cose sono così rosee. Lo ha fatto parlando con i «compagni» chiamati a governare, per incitarli a fare le riforme, quelle «liberiste», quelle necessarie. Ha dipinto un quadro grigioscuro della situazione ungherese, apparentemente per convincerli a liberarsi dai blocchi mentali residui, a dimenticarsi del tutto quello che sono stati. Non è una novità che i postcomunisti ungheresi hanno goduto più di una volta dei favori, anche espliciti, di molti ambienti del mondo economico internazionale, quelli che puntano sulla sinistra per fare le riforme impopolari cui la destra non osa a volte decidersi. Insomma, era una bugia ad uso interno, caduta nelle mani dei non addetti. Che si sono indignati e che hanno cominciato a «commemorare» alla loro maniera il cinquantenario.
Curiosamente, una buona parte dellopinione pubblica moderata, in casa e soprattutto fuori, ha simpatizzato, finché ha potuto, più per i manipolatori che per gli indignati, che sono stati subito bollati come «estremisti di destra» e addirittura, come ai vecchi tempi, uligani. Gente con cui era meglio non discutere e che pertanto si è cercato di isolare. Visto che non demordevano, di escluderli e, di fronte allimbarazzo che ne seguiva, di escludere dalle celebrazioni quelle che un tempo si chiamavano «le masse» e oggi «la gente».
È a questo punto che la corda troppo tesa si è spezzata. Che Budapest si è ritrovata imprevedibilmente simile a quella che era stata nel 1956. Resta ora da sapere se i «bonzi», anche i meglio intenzionati, hanno imparato davvero la lezione.
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