Rivoluzione a tempo di rock, Woodstock tutta da leggere

Un libro fotografico con interviste inedite e curiosità. E con la prefazione del regista Martin Scorsese

Rivoluzione a tempo di rock, Woodstock tutta da leggere

«Volammo verso nord. Io feci salire mia madre sull'elicottero dopo Janis Joplin e tagliammo via l'aria sorvolando un puzzle di terreni e orde di gente che vagava con zaino e sacco a pelo. Janis stringeva la sua eterna bottiglia di liquore, tutti ci sporgevamo dai finestrini, col vento che ci spingeva verso tutta quella gente impazzita, le nuvole blu e nere sopra di noi e tutto intorno. Era solo un meteo bizzarro oppure si percepiva che stavamo facendo la storia?». La domanda di Joan Baez sui tre giorni di pace amore e musica di Woodstock rimane sospesa nell'aria. Perché quella storia è ormai diventata leggenda e - a 50 anni di distanza da quella gloriosa kermesse - il libro di Mike Evans e Paul Kingsbury, Woodstock. I tre giorni che hanno cambiato il mondo (Hoepli, pagg. 288, euro 29,90), con la preziosa prefazione di Martin Scorsese, ne racconta tutti i segreti.

Eppure tutto nacque dall'improvvisazione, perché il maltempo, la ressa e i numerosi inconvenienti (all'inizio gli organizzatori vendettero 60mila biglietti per poi ritrovarsi sul prato 500mila persone circa) hanno completamente stravolto il programma. Un esempio emblematico è quello di Richie Havens. Prima del Festival nessuno aveva mai sentito parlare di lui. Quando eseguì il frenetico spiritual Freedom divenne un simbolo della pace e della controcultura. Freedom è il brano che apre anche il film Woodstock (di cui un giovane Scorsese fu il montatore) ma nacque così, per caso, e Havens non doveva neppure eseguirla. «Avrei dovuto fare circa 35-40 minuti - ricorda l'artista -; ma quando lasciai il palco mi dissero: Richie devi dare ancora quattro canzoni... Poi sono andato via di nuovo e mi hanno detto: Ancora tre. Così uscii e nel film mi vedete temporeggiare. Quella lunga intro a Freedom ero io che tentavo di capire cosa avrei potuto cantare. Credo che la parola Freedom sia uscita dalla mia bocca perché era quello che vedevo davanti a me. Ho visto la libertà che volevamo». Quello fu il momento spirituale del concerto, una tre giorni che fin dall'inizio era cresciuta in mezzo ai problemi. Non si trovava neppure il luogo dove ospitare la kermesse. In principio Michael Lang e gli altri organizzatori volevano usare solo un piccolo campo in grado di accogliere tra le 10 e le 15mila persone. Ma poi si accorsero che ce ne sarebbero state almeno 100mila. Abbandonata l'idea di un posto chiamato Wallkill, decisero di farlo in un campo di proprietà di Max Yasgur a Bethel, villaggio delle Catskill Mountains. Quel ferragosto 1969 fu una bolgia! «Chiunque cerchi di venire qui è pazzo - scriveva il New York Times -; la contea di Sullivan è un enorme parcheggio».

E gli artisti in cartellone? Tutto il gotha del rock e gli eroi del futuro. C'era Jimi Hendrix, Santana ancora semisconosciuto (il suo primo disco sarebbe uscito di lì a qualche mese) che bombardò un pubblico entusiasta con il suo latin rock, e c'erano quelli che hanno preso il volo da quel palco, come Crosby Stills Nash & Young (al momento di attaccare Stills disse: «Questa è la seconda volta che suoniamo davanti a un pubblico, amici, ci stiamo cagando addosso dalla paura») o lo sballatissimo inglese Joe Cocker. Gli eroi della controcultura Grateful Dead, abituati ai grandi happening psichedelici, tennero un concerto disastroso. «Ogni volta che sfioravo il mio strumento prendevo la scossa - ricorda Bob Weir -; il palco era bagnato e l'elettricità mi attraversava, ero un conduttore! Toccare la mia chitarra e il microfono mi costò quasi la vita. Partì una grande scintilla blu, della dimensione di una palla da baseball, e venni scaraventato a tre metri dal mio amplificatore». Però, per lo spirito dell'evento molti fan dei Grateful Dead accolsero bene quel caos musicale, specchio del mood anarchico generale che caratterizzava Woodstock.

Jimi Hendrix, che era una superstar in Gran Bretagna, dopo lo spettacolare debutto americano al festival di Monterey del 1967 divenne un idolo anche a casa sua (e poi aveva una casa di vacanza a Shokan, un tranquillo villaggio a due passi da Woodstock). Peccato che il suo ego lo spinse ad esibirsi per ultimo - come vero headliner - salendo sul palco il lunedì mattina, quando il Festival era virtualmente concluso e fu seguito da un pubblico che oscillava tra le 30mila e le 60mila persone. Il film documenta bene il senso di smobilitazione che accompagna la sua grande performance: la fine di un sogno che stava per diventare realtà. In proposito scrisse Rolling Stone: «nessuno aveva mai visto una società tanto libera dalla repressione.

Tutti hanno nuotato nudi nel lago, scopare era più facile che fare colazione. Per chi non avesse mai sperimentato l'intensa vicinanza comunitaria di una lotta militante - People's park, il maggio parigino o Cuba - Woodstock deve divenire il modello di come ci sentiremo bene dopo la rivoluzione».

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