Roberto De Ponti, giornalista, direttore del Corriere fiorentino, ha scritto L'ultimo Freddie Mercury (Sperling&Kupfer). Gli anni dal 1986 al 1991 sono documentati in modo preciso e accattivante. Freddie Mercury, giusto per fissare qualche paletto cronologico, è nato nel 1946 e morto per complicazioni dovute all'Aids nel 1991. In mezzo c'è una straordinaria carriera musicale. Con i Queen, ma anche come solista. Le immagini che abbiamo tutti negli occhi sono quelle dei Queen al Live Aid. I quattro musicisti, guidati da uno strepitoso Freddie, si mangiava il palco, rinasceva dopo un periodo di relativo appannamento, e stabiliva una volta per tutte che i Queen sarebbero rimasti nella Storia della musica rock. Roberto De Ponti sarà ospite domani del festival fiorentino La città dei lettori con Marco Malvaldi e una sorpresa musicale.
Chi era Freddie Mercury?
«Era un personaggio dalle 1000 sfaccettature. Arrogante, quasi sbruffone sul palco. Timido e bisognoso d'affetto fuori dal palco. Un intrattenitore con gli amici fidati. Un insicuro con gli sconosciuti».
La sua è stata una vita solo di eccessi?
«Indubbiamente ha vissuto fino in fondo le avventure più o meno folli che ci aspettiamo da una rockstar. Ma quando capì che era ammalato, cambiò atteggiamento. Amava stare nella sua casa di Garden Lodge, che aveva arredato alla giapponese e ornato con opere d'arte di ogni tipo. Partecipava ancora alle feste, ma si svolgevano a casa sua».
Negli ultimi cinque anni ha inciso parecchio, tenuto conto delle condizioni fisiche. Come mai?
«Aveva l'ansia di lasciare una eredità artistica di valore. Divenne, a modo suo, uno sperimentatore e costrinse i Queen a registrare in continuazione. Dopo The Miracle lasciò due settimane di tempo agli altri Queen. Lui entrò subito in studio a provare i nuovi brani, quelli di Innuendo. Le incisioni di Made in Heaven, che sarà pubblicato postumo, iniziarono prima che Innuendo, l'ultimo disco di Freddie in vita, uscisse nei negozi. Sapeva di non avere più tempo».
Poi c'è Barcelona...
«Il disco solista con Montserrat Caballé è il primo tentativo di fare un'opera rock. È un esperimento puro. Voleva inventare qualcosa che nessuno avesse mai fatto prima. Freddie aveva una febbre creativa che non aveva prima di scoprire di essere malato».
Nel libro si va da un concerto all'altro, come mai?
«Si apre con il concerto di Knebworth, 120mila presenti. È l'ultimo concerto di Freddie con i Queen. Si chiude con il Freddie Mercury Tribute del 1992, a un anno dalla morte, durante il quale i Queen sono accompagnati da una serie impressionanti di superstar. È il concerto che consacra Freddie e lo pone tra le leggende immortali».
A chi era legato negli ultimi anni?
«Innanzi tutto a Mary Austin, la sua prima ragazza. Il loro rapporto resiste alla separazione, resiste a tutto. Rimasero legati anche dopo la scelta di lasciarsi. Poi Freddie ha chiuso la sua vita circondato da un ristrettissimo numero di persone, a parte gli amici. In realtà ha vissuto con questo piccolo circolo composto da Joe Fanelli, suo cuoco ed ex amante, dal suo assistente personale Peter Freestone e poi dal suo ultimo compagno, Jim Hutton. Sono i tre che di fatto si sono occupati di Freddie fino all'ultimo giorno di vita».
Ci sono misteri intorno al testamento?
«No. I tre sono stati trattati con grande generosità ma come se fossero appunto collaboratori, per quanto importanti. Freddie ha lasciato tutto a Mary. A lei ha lasciato non solo i suoi ben ma anche la gestione totale di tutti gli affari dopo la morte. Scelta chiarissima: Mary Austin era un'altra cosa rispetto ai pur fidati assistenti»
Solitamente nei giornalisti musicali c'è sempre un filo di snobismo nei confronti Queen. Perché?
«Il rapporto tra i Queen e la stampa è sempre stato di odio reciproco».
Lei riporta numerosi esempi.
«Ci sono le prime pagine o pezzi più importanti in cui si attaccano i Queen come musicisti ma anche Freddie come omosessuale, per altro non dichiarato. Non parlo solo dei tabloid. Anche i giornali seri cadevano nei toni scandalistico-moralistici quando parlavano di Mercury, perfino dopo la sua morte».
E per l'aspetto musicale?
«Si diceva che i Queen erano pomposi, retorici, inutilmente barocchi. Storie. Le canzoni dei Queen, a decenni di distanza, risultano ancora perfettamente attuali. Non solo nella struttura, che è la più varia: progresive, hard, pop, rockabilly... Ma anche negli arrangiamenti. I Want to Break Free potrebbe essere stata incisa la settimana scorsa».
Non è così per tutti i grandi gruppi?
«No. Prendiamo un gruppo che amo, i Led Zeppelin. Li metti sul piatto e al primo riff di chitarra riesci a datare il suono: sono gli anni Settanta, al lor meglio. Ma Radio Ga Ga non ha data e nemmeno un gospel come Somebody to Love».
Può aver influito il fatto che i Queen abbiano sempre ignorato l'aspetto politico?
«C'è un segreto nella chimica dei quattro Queen. Il confronto e anche il litigio sui singol brani si risolveva in qualcosa di unico.
Freddie non voleva dare lezioni ma creare qualcosa che rendesse felice l'ascoltatore per tre o quattro minuti. C'è qualche altra band che potrebbe mai vantarsi di canzoni che toccano ogni genere, ogni genere e di avere avuto successo con ogni genere di canzoni?»
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