Rohmer, il papà della Nouvelle Vague

È morto a 89 anni il regista de Il raggio verde e La mia notte con Maud che vinse due volte a Venezia. Nel 1950 l’incontro decisivo con Godard. Romanziere e giornalista, fondò e diresse i Cahiers du cinéma

Rohmer, il papà della Nouvelle Vague

C’è stata una generazione di spettatori per i quali il mio amico Eric significava evocare Eric Rohmer e non Eric Cantona, come accade oggi, col bel titolo della bella fiaba di Ken Loach. Forse anche i devoti di Loach piangeranno la morte di Rohmer, avvenuta ieri a Parigi, per quanto i due divergessero in tutto, salvo nel valore.

Rohmer era nato a Tulle nel 1920, poco prima del caso che Henri-Georges Clouzot evocherà nel Corvo, film del 1943 così bello da venir spesso citato nei titoli dei giornali, anche oggi, senza sapere che cosa abbia significato nella cultura del ’900 quella storia di lettere anonime.

Romanziere prima che regista, Rohmer firmò nel 1946 Elizabeth (in Italia uscito nel 2005 da Mondadori) come «Gilbert Cordier». Ma in realtà all’anagrafe era Jean-Marie Maurice Schérer, cognome che restò in uso pubblico solo al fratello René, l’autore con il rimpianto Guy Hocquenghem, di Co-ire (Feltrinelli), saggio d’ispirazione omosessuale.

Come monarchico, Rohmer era ancora più «diverso». Con questo retaggio, noto solo agli intimi, Rohmer dal 1957 al 1963 diresse i Cahiers du cinéma, la rivista della Nouvelle Vague. Sarà il suo esponente giunto più tardi al successo come regista, ma anche quello più capace di rinnovarsi. Ha infatti ottant’anni quando usa la tecnica televisiva del digitale per movimentare il teatrale La nobildonna e il duca (2001), tratto dai ricordi dell’inglese antigiacobina Grace Elliott. Gilles Jacob, giacobino direttore del Festival di Cannes, rifiutò il film, permettendo ad Alberto Barbera di offrirne a Rohmer la proiezione alla Mostra di Venezia e il relativo Leone d’oro alla carriera.

Seguirà per Rohmer Agente triplo (2002), anch’esso tratto dalla realtà storica: il rapimento del generale russo-bianco Miller nella Parigi del 1937, di cui il giovane Rohmer era stato lontano testimone. A conferma della sua tenacia, nel 2006, ottanteseienne, Rohmer girò Astrée, suo ultimo film, tratto dal romanzo secentesco di Honoré d’Urfé. Non era un film di quelli cari al vostro critico, ma era pur sempre l’opera di una persona che gli mancherà.

Que reste-t-il? Oltre ai film, di Rohmer rimane l’esempio di una personalità insolita. In un ambiente di facile cordialità, nessuno tranne Claude Chabrol, che ne produsse il primo lungometraggio, Il segno del leone (1959), nessuno - neppure chi lo chiamava «Momo», diminutivo di Maurice - gli dava del tu. E comunque nemmeno Chabrol era stato invitato al suo matrimonio (l’unico), freddamente programmato andando in cerca di una possibile sposa in una festa popolare...

C’era agli albori della carriera di Rohmer e vive tuttora a Parigi una figura leggendaria: Jean Parvulesco, che nel 1950 presentò al trentenne cinefilo giunto dalla provincia nella Parigi delle caves, un giovane benestante di Ginevra, Jean-Luc Godard. L’evento cambiò le loro vite e Godard non lo dimenticò se, in Fino all’ultimo respiro (1959), viene ossessivamente evocato «il famoso scrittore Parvulesco» (Jean-Pierre Melville). Nemmeno Rohmer lo dimenticò, facendo di Parvulesco, quello reale, un interprete dell’Albero, il sindaco e la mediateca (1995).

La vulgata divide l’opera di Rohmer in blocchi. Ci sono i «Racconti morali», sei titoli tra cui La collezionista (1967), premiato con l’Orso d’argento al Festival di Berlino, ma soprattutto da una della più seducenti presenze nella storia del cinema, quella di Haydée Politoff; La mia notte con Maud (1969), uno dei rari film a porre seriamente la questione sesso/fede; Il ginocchio di Claire (1970) e L’amore nel pomeriggio (1972). Ci sono poi le «Commedie e proverbi», sette titoli tra i quali Le notti di luna piena (1984) e Il raggio verde (1986), premiato col Leone d’oro al Festival di Venezia. E ci sono i «Racconti delle quattro stagioni», dal Racconto di primavera (1990) al Racconto d’autunno (premiato alla Mostra di Venezia, 1999).


Chi scrive, ricorda più volentieri La marchesa von O (1976), tratto da Kleist, premio speciale della giuria a Cannes, e Perceval le gallois (Mostra di Venezia, 1978), tratto da Chrétien de Troyes. Vent’anni dopo lo dissi a Rohmer e lui pensò che amassi il teatro filmato. «Non proprio - gli spiegai - però mi piace vedere i film che gli altri non vedono». Uomo onesto, sorrise e m’invitò a pranzo.

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