"Non ce la faccio più, vorrei chiuderlo per sempre sto’ ristorante”. Roberta Pepi, proprietaria di un locale nello storico rione Monti, ci mostra l’incasso del venerdì. La cifra riportata sullo scontrino è eloquente: zero. “Zero coperti, questo è il bilancio della nostra giornata di lavoro", si sfoga.
Non è andata meglio ai suoi colleghi. Roberta prende il cellulare e inizia a scorrere la chat di Mio, l’associazione di cui è portavoce: "Guarda con i tuoi occhi se non ci credi, oggi a pranzo c’è chi ha guadagnato 82 euro, e mi viene da ridere ad usare il termine 'guadagnato', e chi ha addirittura mandato la foto di una banconota da dieci euro, la sola che ha maneggiato in tutta la giornata", esclama allargando l’immagine sullo schermo del cellulare. "Così non si può andare avanti, meglio chiudere", sospira.
Il Lazio è ancora colorato di giallo nella cartina italiana dell’epidemia, ma per le vie del centro si respira già aria di lockdown. "I turisti non ci sono e anche gli impiegati sono tutti in smart working", ci spiega Roberta. "Praticamente l’unica nostra funzione ormai è quella di far usare la toilette ai pochi che continuano a passare di qui", commenta. Ci mostra una foto della centralissima via Petroselli, svuotata di automobili e persone: "Di solito è così ad agosto, è una situazione surreale".
A complicare le cose ci sono i varchi della zona a traffico limitato attivi fino alle 18, proprio quando i ristoratori sono obbligati ad abbassare la serranda. Secondo gli operatori del settore, se venissero sospesi, i romani potrebbero almeno ripopolare le vie del centro storico. Vie che a tratti appaiono spettrali. I dehors dei ristoranti restano vuoti da piazza Navona a via Sistina, ma il problema, assicurano gli addetti ai lavori, riguarda anche zone meno centrali e periferie.
"Restiamo aperti per rispetto verso i clienti più affezionati, e poi perché ci sprona ad andare avanti, non certo per l’incasso", mormora Anna Maria, che gestisce "La Campana", il ristorante più antico di Roma, a pochi passi da Montecitorio. I tavoli di questa antica locanda, inaugurata nel lontano 1518, sono quasi tutti liberi. A pranzo ci sono soltanto una manciata di persone. "Vedete questo buffet? Di solito è sempre stracolmo di pietanze, adesso c’è solo il minimo indispensabile", osserva con aria malinconica la manager. "È tutto molto triste e la cosa peggiore è vedere gli occhi dei nostri ragazzi, sono disorientati", racconta. E sui ristori promessi è tranchant: "Capirai, noi ancora aspettiamo la cassa integrazione".
Il proprietario di questo storico locale è Paolo Trancassini, deputato di Fratelli d’Italia che nelle scorse settimane è salito agli onori della cronaca per aver fatto uno sciopero della fame contro le chiusure anticipate. "È assurdo pensare che quello che si può fare all’ora di pranzo non si possa fare a cena, è assurdo dire agli imprenditori che si devono adeguare, e tutti lo hanno fatto, per poi farli chiudere", ci dice. "Qui sta crollando un’intera filiera, anche se dubito che quelli al governo sappiano cosa significhi: pensate solo ai classici carciofi alla romana o alla giudia, i produttori sardi – racconta Trancassini – ora non sanno più a chi vendere il loro prodotto".
E allora, se il premier Giuseppe Conte dovesse varcare la soglia della Campana, "troverebbe pane per i suoi denti".
"Gli preparerei pasta e broccoli in brodo d’arzilla – ironizza amaramente l’onorevole – in onore al vecchio detto romano che dice: stare in bianco come un’arzilla, ossia stare senza una lira, una condizione che non riguarda solo noi ristoratori ma la piccola e media impresa in generale ".Se anche voi siete tra le "vittime" della decisione del governo, raccontateci la vostra storia con una mail a segnala@ilgiornale.it e indicate nell'oggetto "Lavorare è un diritto, riaprite i ristoranti".
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