Azar Nafisi vive e insegna a Washington dal 1997, l'anno in cui ha lasciato l'Iran. Dal suo lungo esilio, la scrittrice ha seguito le elezioni per il parlamento iraniano, che hanno appena sancito la vittoria degli ultraconservatori nell'ambito di un astensionismo record (ha votato solo il 41 per cento, mai così pochi dal '79). «Queste elezioni sono state molto importanti: erano un test di quanto il regime abbia il sostegno delle persone. Ma, nonostante le pressioni, la popolazione si è rifiutata di votare per loro e ora non possono più affermare di averne il sostegno» dice al telefono dagli Stati Uniti. La libertà, il potere, la letteratura: di questo, da sempre, Azar Nafisi scrive con passione. Quello che accadeva sotto il regime degli Ayatollah lo ha raccontato nei saggi Leggere Lolita a Teheran, Quell'altro mondo e La Repubblica dell'immaginazione (Adelphi). Oggi questi temi ritornano nel suo Leggere pericolosamente (Adelphi, pagg. 222, euro 20) in una modalità nuova: «Non volevo un saggio ma qualcosa di più intimo». Lo ha trovato in forma di lettere al padre, amatissimo, morto nel 2004, che negli anni '60 fu sindaco di Teheran (e finì in prigione per non rinunciare ai propri principi): «Ci siamo scritti lettere per tutta la vita, da quando avevo sei anni e mi ha sempre raccontato storie. Quale modo migliore per celebrarlo, se non scrivendogli ancora?». Azar Nafisi sarà in Italia a settembre, a Pordenonelegge, dove riceverà il premio «La storia in un romanzo» 2024.
Che cosa significa Leggere pericolosamente?
«Credo che, allo stesso modo in cui si decide di scrivere la verità e questo può essere pericoloso, così anche leggere può essere un atto di ricerca della verità, un mettere in dubbio non solo il mondo, ma anche noi stessi. E comprendere è pericoloso perché, quando hai compreso, poi devi fare qualcosa».
Lei dice che in alcuni Paesi leggere pericolosamente è proibito; in altri sono le persone a evitarlo...
«È proibito dalla mentalità totalitarista, perché ogni sistema totalitario, da Khomeini a Trump, è basato sulla menzogna. Invece il romanzo vive di verità ed è per questo che diventa pericoloso per il regime. Quando arrestare le persone non basta più, il regime inizia a uccidere gli scrittori e i buoni lettori: la letteratura è sempre stata amica e alleata delle vittime, in ogni totalitarismo».
È la sua esperienza?
«In Iran non era permesso leggere Lolita, o le poesie di Forough Farrokhzad, o i classici della letteratura persiana, che pure sono stati scritti secoli fa... Le persone però hanno iniziato a leggere più di prima, di nascosto, come si dedicano alla danza e al canto, che sono proibiti. Hannah Arendt e Václav Havel in Iran sono delle rockstar, più che nei Paesi democratici».
E questo ci porta a chi invece evita di leggere pericolosamente?
«Succede, per esempio, negli Stati Uniti: è più facile vedere il mondo in bianco e nero, e tu ovviamente sei sempre il buono e gli altri sono i cattivi... In molte democrazie, leggere è affermare un'ideologia».
È più comodo?
«L'ideologia è seduttiva: non devi pensare, devi solo prendertela con un nemico. Un buon romanzo, al contrario, dà voce a tutti, si infila sotto la pelle di ciascun personaggio, anche del villain: non si limita a dire che sia cattivo, bensì ci dà una comprensione di come funzioni la sua mente; e, a volte, possiamo perfino temere di essere noi, il villain».
Qual è il «potere sovversivo» della Letteratura?
«Essa compie due cose che la rendono necessaria al benessere della società. Primo, fa appello alla nostra curiosità; e la curiosità, diceva Nabokov, è insubordinazione allo stato più puro. La curiosità è un modo di scoprire e indagare gli altri e il mondo, il che ci porta alla seconda cosa: l'empatia. Senza cui l'umanità non può vivere».
L'immaginazione smaschera i tiranni?
«Nel primo capitolo parlo della fatwa contro Salman Rushdie. Ora, uno dovrebbe chiedersi, cosa che io faccio spesso: perché un uomo, che ha soltanto le sue parole come armi, è così pericoloso per dei tiranni, che invece hanno le armi e i guardiani della Rivoluzione? Perché sono così spaventati dall'uomo delle parole da doverlo uccidere per sopravvivere?».
Perché?
«Perché i poeti e gli scrittori raccontano la verità e la verità è pericolosa. E impone una responsabilità a chi la legge, quella di non poter rimanere in silenzio. Per questo le proteste sono così pericolose».
Come quelle nel suo Paese, dove alle elezioni c'è appena stato un astensionismo record?
«Sappiamo che hanno imbrogliato, che tra i votanti figurano nomi di persone che non sono andate alle urne. Si diceva che il movimento iraniano per la libertà e le donne stesse perdendo smalto, ma questo voto è come gli iraniani combattono: non con la violenza o le armi, bensì rifiutandosi di votare per questo regime. Che ora ha perso ogni legittimità verso la popolazione. Credo che questo risultato sia molto positivo».
Lei scrive che i regimi confondono appositamente fantasia e realtà.
«La mentalità totalitaria è sia contro la realtà, sia contro il romanzo, l'immaginazione, le idee. Guardiamo l'Unione Sovietica, la Russia di oggi, l'Afghanistan o l'Iran: la prima cosa che fa ogni regime è confiscare la nostra realtà».
Come?
«Per esempio, in Iran non abbiamo il diritto di vestirci come vogliamo, una cosa assolutamente personale: vogliono privarci dell'identità nazionale e di quella individuale. Perciò la battaglia per la libertà delle donne iraniane è oltre l'ideologia o la politica: è una lotta esistenziale. Ed è pacifica, come quelle di Gandhi, Mandela, Martin Luther King e James Baldwin».
A proposito dei romanzi di Baldwin, lei lo cita come esempio di impegno lontano dall'ideologia.
«Un buon romanzo non è ideologico: non predica al lettore, lo immerge dentro l'esperienza della realtà e lo lascia giudicare da sé. Questo fanno le grandi opere: lasciano parlare tutti. Invece, nei cattivi romanzi, un dittatore impone la sua voce a tutti i personaggi: e anche questo è totalitarismo».
Che altro fa la buona letteratura?
«Ci apre al mondo, anziché chiuderci a esso. Saul Bellow diceva che tutti sappiamo quanto le torture di Stalin fossero sbagliate, ma che in democrazia c'è un pericolo più sottile: non di essere imprigionati o uccisi, bensì di diventare indifferenti alla realtà, all'immaginazione e alle idee. Diceva che la minaccia peggiore alla democrazia è la nostra consapevolezza addormentata. Questo mi preoccupa oggi, non solo per l'Iran, ma anche per l'America».
Parlando di David Grossman dice che la letteratura è «un atto d'amore».
«È questo senso di celebrare la vita in una storia: tutti moriamo, in ogni momento, e l'unica cosa a sopravvivere è la memoria. E la letteratura è la guardiana della memoria».
Anche per questo alle dittature fa paura?
«Sì. Il totalitarismo vuole farti dimenticare. Tzvetan Todorov diceva che solo l'oblio totale porta alla disperazione totale: finché abbiamo la memoria e una storia da raccontare non dobbiamo disperarci».
È così anche per lei?
«Non sarei sopravvissuta senza la letteratura. A 13 anni andai in Inghilterra a studiare ed ero distrutta: tutto ciò che chiamavo casa era lontano. Avevo solo tre libri con me, due di poeti classici persiani e uno di Forough Farrokhzad. Poi, tornata in Iran, dopo la Rivoluzione ho scoperto che anche la mia casa poteva essere distrutta e, da allora, ho solo una casa portatile, che mi viene dalla Repubblica dell'Immaginazione».
Se dovesse scegliere un libro solo?
«È difficile... Direi che la madre di tutti è Le mille e una notte: Sherazade cambia il re non uccidendolo, bensì curandolo attraverso le storie, con cui gli mostra che il mondo è pieno di persone diverse, che non tutte le regine sono adultere e non tutti i re sono buoni...
La curiosità e l'empatia del re guariscono e lui diventa un uomo nuovo. Grossman dice di non voler diventare come il nemico: ecco, se combatti come Sherazade non vai nel regno del re, del nemico, bensì permetti al re di venire nel tuo».
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