Il romanzo politico è morto. Quello elettorale sta benissimo

In Italia molti scrittori si dicono apolitici per saltare sul carro dei vincitori. Ecco i grandi che non la pensavano come loro

Il romanzo politico è morto. Quello elettorale sta benissimo

Secondo il mio amico Simone Cattaneo - diavolo, sono già passati dieci anni dalla sua morte in cui sono morto in parte anch'io - Il principe di Machiavelli è il primo e il più grande dei romanzi italiani. Ha ragione: il Valentino è una figura shakespeariana, Machiavelli ha il talento per la frase schietta e apodittica («Io iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso che respettivo; perché la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla»), della tempra italica ha capito tutto («tutto procede dalla debolezza de' capi; perché quelli che sanno, non sono obediti, e a ciascuno pare di sapere», ragion per cui, siamo individui eccelsi con eserciti perdenti). Machiavelli è la sintesi di un'asserzione perfino banale: la letteratura italiana, da Dante a Leonardo Sciascia, da Manzoni a Pasolini, è «politica», perpetuo rovello sui costumi e sugli stili del governare.

Dal Regno Unito, però, rimbomba la domanda: «Is the political novel dead?». A farsela è Dorian Lynskey, sul Guardian, alla luce di un fatto. La scrittrice nordirlandese Anna Burns, con Milkman (in Italia lo pubblicherà Keller), ha vinto, dopo il Man Booker Prize, l'Orwell Prize for Political Fiction. Costretta a esprimersi - il romanzo ha per sfondo le violenze irlandesi degli anni Settanta - la Burns si è schermata, «Scrittura e politica? Non so cosa le accomuni. Il mio è un romanzo che riguarda il potere». Nessuno vuole avere a che fare con la «politica» - lo scrittore difende la propria melmosa verginità - ma tutti si schierano contro il «potere» (purché sia astratto, senza volto né nome). L'articolista, giustamente, si sorprende: Orwell, di fronte a questo cicaleccio cerchiobottista, avrebbe rovesciato la scrivania. «La nostra è un'età politica... Chiudersi in una torre d'avorio è impossibile e indesiderabile», attacca nel suo saggio più noto, Gli scrittori e il Leviatano (1948). Specificando: «Rinunciare alla propria soggettività in nome di una macchina di partito o anche solo di un'ideologia corrisponde a distruggersi come scrittori». Detto questo - qui siamo nel 1946, il saggio s'intitola Perché scrivo -, «non esiste un libro autenticamente immune da pregiudizi politici: la posizione secondo cui l'arte non dovrebbe aver niente a che fare con la politica è già una posizione politica».

Caro, vecchio, geniale Orwell. A questo punto è chiaro che per romanzo «politico» non s'intende il romanzo «elettorale», partitico, scritto per ornare di cristalli il deretano del politicante di turno, né il romanzo «sociale», che sta alla larga da un pensiero forte sull'arte del governo, ma intinge nel miele vasti temi di buon gusto e di buon senso (il precariato, il fenomeno dei richiedenti asilo, la fenomenologia dei «giovani», l'eutanasia...). Dopo aver allineato una serie di scrittori - Ayn Rand, John Steinbeck, Aleksandr Solzenicyn, Arthur Koestler, Chinua Achebe -, i cui romanzi «hanno influenzato notevolmente il panorama politico dell'epoca», il giornalista conclude: «il romanzo politico è anacronistico; una certa voce, urgente, inqualificabile, è ridotta al silenzio».

In Italia, se possibile, la situazione è peggiore. A vincere, nel consesso elettorale dei premi e nel consenso dei lettori, sono libri autobiografici, una grigia gita nell'ombelico di romanzieri esiziali, esistenziali - niente a che vedere con l'autobiografia «politica» di un Alfieri, di un Ippolito Nievo - oppure libri piattamente sociologici (più vago è il tema più il pubblico abbocca); romanzi spensierati, per dilettare, scritti da dilettanti, oppure «mattoni» storici, scritti per blandirci con l'obsoleta ovvietà che studiando il passato capiamo meglio il presente. Più che altro, assistiamo all'immane sputtanamento di un genere in cui eravamo eccelsi: pensiamo alle visioni di Guido Morselli (Il comunista), alle ossessioni di Curzio Malaparte, che in Kaputt capisce con fiammante esattezza la politica tedesca («Ciò che muove il tedesco alla crudeltà, agli atti più freddamente, più metodicamente, più scientificamente crudeli, è la paura. La paura degli oppressi, degli inermi, dei deboli, dei malati, la paura dei vecchi, delle donne, dei bambini, la paura degli ebrei... La misteriosa nobiltà degli oppressi, dei malati, dei deboli, degli inermi... il tedesco l'avverte, la sente, l'invidia e la teme, forse più d'ogni altro popolo d'Europa»), alle agnizioni di Paolo Volponi (che dichiarava: «Sono stato sempre persuaso che la letteratura sia una forma del fare politica e nel senso più alto e più ricco del termine»).

Piuttosto, come antidoto alle brume degli scrittori odierni, apolitici per convenienza - così possono saltare più facilmente sul carro del partito che vince - occorre abusare delle Note azzurre di Carlo Dossi, pandemonio di pensieri brillanti e di sconvenienze.

Dossi, vicino a Francesco Crispi, console a Bogotà e ambasciatore ad Atene, portò in politica la scapigliatura: «Scopo della burocrazia è di condurre gli affari dello Stato nella peggior possibile maniera e nel più lungo tempo possibile». La morale è presto tirata: in mancanza di romanzi «politici», ci resta la cattiva politica, che palle.

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