«I buoni muoiono. Restano gli altri», fa dire a uno dei suoi personaggi George A. Romero nel suo diciassettesimo film - esordì nel cortometraggio nel 1953 -, il sesto di zombi. Il primo, La notte dei morti viventi (1968) scaturiva da un’intuizione: l’andatura dondolante e lo sguardo vacuo, tipici della dipendenza da eroina, rese segni di zombaggine. Con le guerre, la politica americana s’è occupata di perpetuare questa situazione, dando occasione a Romero di proporre rari film diversi, come La metà oscura, e schierare sempre più zombi. Perché, nonostante le ecatombi? «Perché il terrore che incutono deriva nei miei film dal numero, non dalle doti atletiche, come nel caso degli zombi di Zack Snider. I miei zombi sono sempre meno i cattivi e sempre più i buoni: per la loro ingenuità». Specie in Survival of the Dead («Sopravvivenza dei morti»), presentato in concorso alla Mostra.
È stato un evento e il settantenne Romero ammette di esserne stupito. Perché è consapevole dei suoi limiti: non ci sono motivi estetici - il suo film vale quanto i precedenti, con qualche innovazione sull’etologia dello zombi - per averlo alla Mostra, ma ce ne sono di più alti. Quanti individuano un film di un Oliveira o di un Ozon, spesso venuti alla Mostra? Pochi. E quanti associano Romero agli zombi? Tanti. Facile cogliere lo sfondo bellico che ha ispirato Romero: l’America del 1968, quando lui girava La notte dei morti viventi, era al culmine della presenza militare (mezzo milione di soldati) in Indocina. Le truppe venivano tenute costantemente sotto droghe diverse, quelle per il combattimento e quelle per il riposo, per evitare ammutinamenti. Tornavano a casa, se ci tornavano, assuefatti a tutto questo e così, col numero degli intossicati, cresceva quello degli spacciatori. Nel giro di sei anni, dall’inizio dell’intervento in Indocina sotto Kennedy, le strade delle metropoli erano diventate un mercato fiorente per ogni sostanza. Ma era l'eroina la più diffusa.
Così Romero non ha mai indicato con precisione chi avesse provocato questa profana resurrezione dei morti, salvo un cenno all’influenza di un satellite. Del resto una spiegazione precisa avrebbe tolto mistero all’orrore. In Survival of the Dead gli Stati Uniti sono ancora relativamente funzionanti, a cominciare da Internet, ma la caccia allo zombi ha ispirato una dissidenza: su un’isola dell’Atlantico un patriarca da film western incatena gli zombi di famiglia, sperando in una cura; il patriarca di un’altra famiglia invece li uccide. Qui approda un gruppo di militari, portati sull’isola dal patriarca sterminatore. Chi ha ragione? Lo zombi è rieducabile? Può imparare a mangiare carne non umana? Nell’attesa di una risposta, esplodono centinaia di teste, prese a rivoltellate.
È una guerra, come quella che ha ispirato, riferendosi al Libano del 1982 anziché al Vietnam del 1968, Lebanon di Samuel Maoz, che potrebbe essere dopodomani fra i premiati di un’ottima Mostra. Tutto girato in teatro di posa, il film si svolge mentre nei cieli della Bekaa c’era la battaglia che avrebbe deciso la Guerra fredda: aviazione siriana, con aerei russi, annientata senza nemmeno una perdita israeliana.
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