Di libri che rappresentino la vita delle popolazioni native degli Stati Uniti nel XIX secolo non ne mancano certo. Alcuni sono beceri resoconti folcloristici ispirati al mito del buon selvaggio o, al contrario, improntati alla riproposizione di una presunta superiorità della razza eletta dei bianchi rispetto alla barbarie assoluta dei nativi, a seconda che il narratore sia un ex-prigioniero di una tribù indiana o un colono o un alto ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti che ha combattuto in diverse guerre indiane prima di ritirarsi a scrivere le proprie memorie.
Ma il risultato non cambia. La rappresentazione degli indiani, o pellerossa - espressione oggi non più considerata politicamente corretta, in quanto facente riferimento al colore della pelle - resta comunque frammentaria e, nella migliore delle ipotesi, naïf. Per non parlare di molte pellicole, soprattutto dell’età aurea del western hollywoodiano, che non sempre hanno reso giustizia alla causa indiana, ma che, quanto meno, hanno avuto il merito di portarne per prime all’attenzione internazionale le rivendicazioni e i problemi. Fortunatamente, non manca una nutrita saggistica che ha cercato di far piazza pulita di luoghi comuni e inesattezze storiche.
Io, Pellerossa (Donzelli, pagg. 235, euro 19,80) non è un saggio e non è nemmeno un romanzo. È, piuttosto, il testamento spirituale di Sarah Winnemucca (1844-1891), una figura controversa e dai tratti quasi leggendari nel panorama storico dei nativi americani. Non capita spesso di leggere un incipit così eloquente: «Sono nata nel 1844, ma in quale giorno preciso non saprei dire. Ero solo una bambina quando i primi bianchi arrivarono nei nostri territori. Arrivarono come leoni ruggenti e da quel momento in poi si sono sempre comportati così. Non dimenticherò mai la volta in cui arrivarono».
Sostenitrice infaticabile della nazione indiana dei Paiute del Nevada, nonché nipote del capotribù Truckee, l’uomo che guidò «l’ultimo esploratore americano» John Charles Fremont in California, Sarah crebbe in un mondo che presto non sarebbe più stato lo stesso. Un mondo in cui la tradizione del racconto orale, delle visioni alimentate da una vita a contatto con la natura e delle forti credenze animistiche avrebbero ceduto il passo alla inevitabile contaminazione da parte della cultura occidentale e della filosofia cristiana. Un mondo in cui fu costretta ad assistere a guerre, massacri, marce forzate e tradimenti che cambiarono per sempre il volto del suo popolo. In quel mondo in rapida trasformazione, Sarah dovette lottare al fine di ritagliare per sé e per il suo popolo uno spazio. E una posizione di rilievo la ottenne, lavorando come interprete per le autorità federali, sempre nel dubbio se schiacciare con la forza la resistenza dei nativi al cambiamento oppure mettere in campo la sottile arma della diplomazia.
Da qualunque ottica si guardi alla storia della colonizzazione dei territori indiani, quel che balza agli occhi di tutti è un concentrato di sopraffazione, violenza e inganno che ha davvero poco di nobile. Quello di Sarah Winnemucca è il primo libro pubblicato (1883) da una donna indiana e il primo di un indiano a Ovest delle Montagne Rocciose. Sarah si fece portavoce della volontà del suo popolo di fare ritorno in Oregon in un incontro senza successo con il Presidente degli Stati Uniti, in occasione del quale ebbe, però, la possibilità di conoscere membri della élite sociale e culturale della costa orientale e di scrivere il suo libro. Conoscendo una quindicina di dialetti indiani, lavorò per l’esercito americano, tra le cui file militavano gli uomini bianchi che stimava maggiormente e che riteneva solitamente degni di fiducia, ed ebbe diversi battibecchi con gli agenti di turno delle riserve, uomini spesso corrotti, egoisti e truffaldini, sempre pronti a fare fortuna alle spalle delle popolazioni native.
Certo, non mancano pagine di un’ingenuità tale da far sorridere, ma non va dimenticato il contesto storico in cui questo libro venne scritto. Ci sono, peraltro, pagine suggestive come quelle relative al passaggio d’età delle adolescenti Paiute e al rito del corteggiamento, al legame fortissimo con il nonno capotribù, sorta di patriarca biblico: «mentre il nonno parlava... Si sentiva qui e là qualcuno gridare, proprio come fanno i Metodisti durante le loro riunioni, e il nonno disse molte cose belle...».
Ovviamente, sono frequenti i riferimenti alle guerre che hanno insanguinato la storia dei rapporti tra le popolazioni native e i colonizzatori bianchi, forse per sfatare la falsa credenza che l’aggressività sia il tratto comune alle diverse etnie indigene. È nella spiegazione stessa della filosofia pacifica del suo popolo che emerge l’ingenuità di questo personaggio, ma anche la sua vera origine nativa, che nemmeno il matrimonio con il militare americano Lewis Hopkins riesce a imbastardire. «Ora il ragazzo può fare quel che vuole, perché è diventato un uomo... Se c’è una guerra, può parteciparvi, ma i paiute... non amano la guerra... \ non hanno aspettato per capire quanto bene intenzionati fossero gli indiani e quali idee avessero di Dio, uguali a quelle che i bianchi hanno su Gesù, che loro chiamano Padre, come fa la mia gente, e che raccomanda agli uomini di comportarsi con gli altri come si vorrebbe che gli altri si comportassero con noi, proprio come il mio popolo insegna ai propri figli». È evidente che solo una persona che avesse vissuto a stretto contatto con il mondo dei bianchi avrebbe potuto tracciare un confronto così lucido e semplice al tempo stesso.
Introdotto da una corposa e approfondita prefazione di Giorgio Mariani, Io, Pellerossa è un libro in grado di alimentare la mai sopita curiosità per la cultura dei nativi americani. Affiancandone la lettura a quella di uno dei tanti saggi esistenti sull’argomento, si potrà gettare nuova luce su un universo che, nonostante tutto, resta ancora poco conosciuto.
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