Lo scandalo necessario

Dalla prima pagina di un giornale ti si offre la foto di un bimbo che dorme, sereno e composto nella tutina nuova che indossa per la prima volta. Che però è anche l’ultima. Tu sai che quel bimbo, Hevan, è morto, che non conoscerà il risveglio e che giacerà per sempre con la madre, Jennifer, anche lei morta. E allora un grumo d’angoscia ti serra lo stomaco, t’interroghi sui mille abissi che può raggiungere la banalità del male, in una provincia quieta dove l’orrore non è di casa. Ti turbi, t’indigni, ma con chi? Perché?
Non c’è nulla di morboso nell’immagine pubblicata, è la storia di quel particolare delitto che è insopportabile, intollerabile.
La pubblicazione di quella fotografia è stata voluta dalla madre di Jennifer, che l’ha esplicitamente chiesto al Gazzettino, con un intento preciso. La nonna (possiamo chiamarla così?) vuol dimostrare, nella forma più elementare e diretta, visibile per tutti, che l’assassino di Jennifer, reo confesso, non dovrebbe essere perseguito soltanto per l’omicidio della ragazza, ma anche per l’omicidio di Hevan. Ripetiamo, nell’immagine del bimbo non c’è nulla di macabro e di morboso – ben altro siamo abituati a vedere talvolta sui giornali – ma l’iniziativa dettata dall’amore di una nonna mancata e resa possibile da alcuni giornalisti diventa una «provocazione», o una «follia», comunque un fatto scandaloso. E perché? La risposta è semplice, banale, burocratica: Hevan era, è un bambino, nutrito per nove mesi dal sangue della giovane madre, ma non lo si può considerare una persona, con una sua precisa identità, perché è un non-nato, non c’è stato il passaggio obbligato e decisivo dell’anagrafe. In questo nostro mondo avanzato se non si è registrati nelle forme previste dalle competenti autorità non si è nessuno, si è soltanto una nullità, non suscettibile di considerazione e di certificazione alcuna. E se dunque non è una persona, ma soltanto un «feto» – che pare sia una condizione rilevante quasi esclusivamente per la medicina – non può essere parte offesa di omicidio. Può essere sepolto e dimenticato, nulla di più, nulla di diverso.
Sul piano giuridico, del diritto positivo, come amano dire gli avvocati, la questione forse è improponibile, ma merita una riflessione morale, qualche interrogativo non banale il caso di un bimbo completamente formato che, per la ferocia di un assassino, è morto qualche giorno prima di nascere. Un orribile paradosso. Ma i giornali non sono fatti anche per suscitare interrogativi, porre problemi, stimolare pensieri che superino la leggerezza del pettegolezzo?
La pubblicazione della foto di Hevan è certamente un pugno nello stomaco, ma quando con passione si discute di che cosa sia la vita e di chi possa definirsi «persona» anche un pugno può servire, per farci svegliare, per fare comprendere che la vita e la morte, nella realtà, possono essere diverse dalle categorie ideologiche con cui cerchiamo di ingabbiarle. Prima ancora della foto, l’atroce pugno nello stomaco è costituito da quel delitto. È necessario che certi scandali avvengano.
Luigi Bacialli, direttore de Il Gazzettino, è un giornalista rigoroso, non è uno spregiudicato speculatore in orrori. Finora ha ottenuto soltanto un risultato paradossale, adesso sotto processo è lui e grandi censori si affrettano a cucinarlo nelle sedi opportune. Così impara a porre domande scomode, a suggerire pensieri e domande troppo profondi.


Si conferma, del resto, che può essere più pericoloso stare dalla parte delle vittime che dei carnefici, richiamare l’attenzione su chi subisce i delitti piuttosto che su chi li commette. Quasi sempre le vittime muoiono almeno due volte, mentre i carnefici si avviano per quei sentieri di riabilitazione, spesso finta, che attenuano le pene e rendono girevoli le porte delle carceri.

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