Ferdinando Scianna, nato e vissuto sulla direttrice Bagheria Milano Parigi e ritorno, è un cultore della parola prestato all'immagine. O il contrario: di sé ha detto di essere «un fotografo che scrive» e di vedere «il mondo in bianco e nero». Come conferma il titolo della sua ultima mostra, «La geometria e la compassione», da oggi 14 novembre e fino al 18 gennaio 2025 al Centro Culturale di largo Corsia dei Servi, è un appassionato della vita nelle sue contraddizioni.
Amico di Sciascia, Cartier-Bresson, Kundera, Vazquez Montalbàn, Tornatore, di Dolce e Gabbana, Maria Grazia Cucinotta (alla quale ha dedicato un calendario), vive di ispirazioni complesse. Quest'esposizione è nata dall'invito dell'amico Giovanni Chiaramonte, pochi mesi prima di morire, di dedicarsi a una meditazione sul dolore. Eccola in mostra: sessanta immagini scattate in tutto il mondo. Come consiglia di visitarla, dal momento che ne è anche curatore? «La mostra ripercorre la struttura del libro La geometria e la compassione', che ne è il catalogo. Le foto sono divise per capitoli: Miseria, Catastrofi, Violenza, Solitudini, Morti, Migrazioni. Accanto alle foto testi laconici, che non sono didascalie ma nuovi tentativi di forma espressiva».
Qual è la fotografia scattata nella sua vita alla quale è più legato?
«Lei ha figli? Se hai figli, anche se lo pensi non lo dirai mai qual è il tuo preferito. A volte dipende dalle fasi della vita. In questo momento la mia preferita è la foto in cui la mia bambina bacia sul naso mia moglie, non perché è la mia famiglia, ma perché è una buona foto. Farà parte della mia prossima mostra, "La geometria e la gioia"».
Lei ha lavorato su immagini sacre, in Sicilia e a Lourdes, come con la pubblicità. In Duomo c'è un monitor sempre acceso che rimanda foto di quelle che un tempo si sarebbero chiamate modelle discinte...
«Il Duomo è sempre in riparazione. Una volta c'era una grande pubblicità con Madonna e non era la mamma di Gesu. La pubblicità inevitabilmente è diventata un filtro con la realtà anche per la religione. Se dopo un reportage sui bombardamenti ci sono lassativi, macchine, altri prodotti, c'è una spinta continua a una realtà altra. Poiché le persone vivono in un sogno, si sentono distratte, ma dalla realtà».
In mostra c'è un'immagine della Madonna, questa volta la madre di Gesù, su un fucile. Lei ha molto lavorato su un linguaggio d'impatto.
«Una volta Berlusconi ha detto che la tv è tutto quello che c'è intorno alla pubblicità. Oggi si potrebbe dire che vita e morte sono ciò che c'è intorno al blocco infinito che passa attraverso Internet e tv. Non lo dico da moralista. Non mi chiamo fuori, non sono né innocente né stupido. Mi piaceva innescare messe in scena, mi interessava dal punto di vista espressivo. Non sempre mi blocco se vedo qualcuno che muore di freddo per terra. A volte sono molto interessato a come si muove la signora accanto a me».
Più di altre volte, questa sua collezione di immagini va in giro per il mondo. Fotografando il dolore non si rischia l'indifferenza?
«Non è indifferenza, fa parte della mia maniera di commuovermi. Un basso napoletano con una bimba che si lava così in una vasca ti fa capire che ci sono diverse maniere di vivere. Una volta, in Bangladesh, mi è caduto accanto un uomo che guidava il risciò. Mi hanno detto: "non è niente, solo fame". Come prima cosa ho scattato la foto, poi ho aiutato a portarlo via per farlo mangiare. È il mio modo di esprimermi».
È questo il senso del legame tra la geometria e la compassione?
«Niente si può fotografare senza che ci sia una forma. Non basta entrare in un fatto, io cerco di entrare con stile, come uno scrittore non racconta solo la sofferenza ma il modo di quella sofferenza, altrimenti non riusciresti a leggerlo. Le mie immagini sono una riflessione che offro ad altri».
La sua spiritualità è cambiata o è rimasta legata ai lavori degli esordi?
«Lourdes mi ha molto appassionato perché ho visto succedere continuamente il miracolo della fede e della speranza. Ma la considero una cosa non metafisica, ma che riguarda l'uomo».
Perché non fotografa più?
«Non faccio più foto, se non ritratti, da almeno sette anni perché le gambe non ne hanno più voluto sapere e per i fotoreportage servono forza e
tensione psicofisica. La scrittura mi ha salvato la vita. Però nel 2019, con il mio ultimo libro di immagini, il Ghetto di Venezia cinquecento anni dopo, ho capito che quando ho una macchina fotografica in mano sono più felice».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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